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Home » Esteri

Perché la guerra in Siria è tutt’altro che vicina a una conclusione

Immagine di copertina
Credit: Nazeer al-Khatib

A che punto è il conflitto? Che ruolo stanno giocando i diversi attori in campo? L'analisi di Laura Mirachian per l'Affarinternazionali

In Siria, tutto pareva filare liscio per Putin. Tanto che l’11 dicembre aveva annunciato trionfalmente al personale militare della base di Hmeimin “missione compiuta” (ricorda qualcosa?) e imminente ritiro di una consistente parte del contingente russo.

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La convocazione di un’Assemblea nazionale siriana, che dovrebbe riunire a Sochi oltre un migliaio di delegati delle componenti governativa e delle opposizioni per fissare i termini degli assetti transitori e finali del territorio, era già programmata per fine novembre.

In sostanza, smobilitazione militare e conclusione del processo di Astana in tempo utile per le presidenziali di marzo.

Persino il saudita Jubeir, dopo l’interruzione dei pur modesti aiuti all’opposizione moderata decisa da Trump nelle scorse settimane, segnalava a un gruppo di oppositori l’opportunità di predisporsi al negoziato dismettendo le armi.

Uno scenario cambiato nel giro di poche settimane: chi contro chi?

A distanza di qualche settimana, lo scenario è cambiato.

Del resto era nelle carte: una volta sgombrato il campo dal sedicente Stato islamico, l’Isis, e mano a mano che la trama dell’organizzazione del territorio in  “sfere di influenza” è andata precisandosi, è emersa tutta la fragilità della triade russo-turco-iraniana: in particolare, l’insoddisfazione di Ankara per non essere riuscita ad ottenere né dai due partner né dagli Stati Uniti sufficienti garanzie sulla invulnerabilità delle proprie frontiere e cioè una zona cuscinetto in funzione anti-curda – donde, l’operazione in atto ‘Ramo d’ulivo’, ndr -.

Sono ripresi infatti i combattimenti nelle cosiddette de-conflicting zones dove avrebbe dovuto istallarsi una tregua ai sensi del memorandum concluso in maggio ad Astana.

Particolarmente investita l’area di Idlib, la più vasta delle zone designate in Siria, situata al centro-nord sulla direttrice Turchia.

Chi combatte chi?

Idlib è al contempo un capoluogo dell’opposizione moderata e una sacca di resistenza residuale degli jihadisti di Hayat Tahir Al-Sham, derivazione di Al-Qaida.

La dinamica dei combattimenti è analoga a quella registratasi ad Aleppo nel 2016, assedi, impossibilità di accesso per gli aiuti umanitari internazionali, bombardamenti a tappeto dell’aviazione di Assad sostenuta da Mosca, vittime, esodo precipitoso dei civili (quasi 100.000 secondo Unocha).

Nell’ottica di Ankara, che è presente al nord della Siria con un proprio contingente militare oltre-frontiera ad Al Bab e punta ad estendere la propria influenza verso sud per le ragioni sopraddette, trattasi del tentativo di Assad di conquistare il controllo di territori attualmente retti dall’opposizione filo-turca.

Secondo Assad e i suoi alleati russi, per contro, gli jihadisti restano la presenza dominante in quell’area e vanno abbattuti: una riserva in tal senso era stata annunciata da parte russa  già ad Astana.

La battaglia di Idlib e un’incrinatura nella triade Russia-Turchia-Iran

Nessuno forse avrebbe rilevato il contrasto in parola, se da metà dicembre Ankara non avesse ripetutamente denunciato bombardamenti governativi e russi nell’area e se il 31 dicembre la stessa base russa di Hmeimin non fosse stata colpita, con notevoli danni a un numero imprecisato di velivoli russi, e se il 6 gennaio entrambi le basi di Hmeimin e Tartous non avessero subito attacchi mediante droni.

Droni sbrigativamente attribuiti da Mosca a forniture americane o ucraine ai ribelli, e poi identificati come provenienti da una postazione dell’opposizione a Muazzara nei pressi di Idlib.

Il 9 gennaio, Ankara convocava i due ambasciatori russo e iraniano segnalando irritazione per l’avanzata di Assad e chiedendo un fermo intervento per fermarlo, in nome del ruolo di garanti della tregua tecnicamente assunto ad Astana.

La ‘battaglia di Idlib’ segnala che l’intesa della triade si è chiaramente incrinata, con la dissociazione della Turchia. Non solo.

Vi è chi malignamente sospetta che agli episodi in parola non sia estraneo lo stesso Assad, il quale non potrebbe vedere di buon occhio un ritiro militare russo dalla Siria e riuscirebbe così ad allontanare quel momento, compromettendo la exit strategy messa a punto da Putin ora che i suoi obiettivi sono pressoché raggiunti.

Non sarebbe la prima volta che Assad preme su Mosca, vera garanzia della sua sopravvivenza politica e probabilmente fisica.

Altri punti caldi da settimane sono Goutha Est (Damasco), Homs  e Hama (centro), anch’esse teoricamente de-conflicting zones.

Neppure il negoziato è senza intoppi: incertezze da ogni dove

Anche sotto il profilo politico-negoziale, il disegno di Putin sta subendo contraccolpi.

L’ Assemblea nazionale siriana riprogrammata per il 29-30 gennaio a Sochi è nettamente contestata dall’opposizione che rivendica a gran voce il rientro nel processo a guida Onu, manifestando totale sfiducia per Mosca e criticando tra l’altro la selezione non imparziale degli invitati.

La stessa Turchia minaccia di non aderire ove i curdi del Pyg fossero presenti.

L’incertezza serpeggia tra le stesse fila newyorkesi, ove il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres propenderebbe per condizionare la partecipazione a Sochi all’assenso della membership e il suo delegato Staffan De Mistura (presente ad Astana in precedenti occasioni) sarebbe piuttosto dell’idea di non mancare l’evento per far valere la voce dell’Onu stessa nell’assise, considerando che i risultati dovrebbero in ogni caso acquisire l’avvallo del Consiglio di Sicurezza.

Divisioni trapelano anche negli Stati Uniti, che nel passato hanno assicurato una presenza seppur di medio livello ad Astana: formalmente, Tillerson, Mattis, McMaster insisterebbero sul processo di Ginevra, mantenendo tuttavia un certo distacco dalla questione, visto che da tempo le priorità americane è l’abbattimento della residua presenza dell’Isis, cui si è aggiunto il contrasto all’Iran.

Un appoggio più chiaro alla ripresa del processo di Ginevra e alle istanze dell’opposizione potrebbe venire dalle capitali europee, in occasione del giro di visite dell’opposizione che dovrebbe comprendere anche Roma, dopo Londra e Parigi e prima di Berlino.

Manca per ora la voce di Teheran.

Che notoriamente persegue i propri piani sulla direttrice del Mediterraneo, ma che avrebbe verosimilmente interesse a che Mosca rimanga coinvolta nel territorio in vista di una prossima crisi che la contrapponga alla nuova triade in fieri Stati Uniti-Israele-Arabia Saudita.

Del resto, Washington non nasconde che la sua recente decisione di rimanere militarmente attivi in Siria e di addestrare 30mila curdo-siriani al nord – nonostante ‘l’effetto collaterale’ di accentuare l’irritazione di Erdogan alimentandone la tentazione di espandere, come sta avvenendo, l’intervento militare turco  – sia uno dei modi per contrastare l’influenza di Teheran oltre che il perdurante appoggio di Mosca ad Assad.

In tali circostanze, non solo la exit strategy russa sarebbe a rischio, ma l’intera vicenda siriana non sarebbe certo prossima ad una conclusione.

L’analisi è stata pubblicata da AffarInternazionali con il titolo “Siria: tra exit strategy russa e la guerra continua” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore. 

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