I soldati israeliani che si rifiutano di combattere a Gaza

Oltre 100 mila giovani hanno smesso di rispondere alla chiamata alle armi. Sempre più riservisti rinunciano a presentarsi in caserma. Qualcuno lo fa per motivi economici. Altri per scelta morale. Un’opposizione silenziosa che riflette un crollo della fiducia nello Stato ebraico
Sempre più riservisti si rifiutano di rispondere alla chiamata dell’esercito israeliano. Il fenomeno non riguarda, se non in casi limitati, la solidarietà ai palestinesi. Ma a incidere sarebbero piuttosto fattori economici, sociali e una disillusione sempre più diffusa per le sorti di un conflitto iniziato quasi 20 mesi fa.
A lanciare l’allarme è stata la stampa israeliana, che negli scorsi mesi ha iniziato a dare risalto a questo problema per molti versi inedito, che potrebbe mettere a repentaglio la capacità dell’esercito di continuare a combattere su più fronti. Le forze di riserva costituiscono infatti il 70 per cento degli effettivi delle forze armate israeliane (Idf). In passato la partecipazione è sempre stata molto alta e lo è stata ancora di più dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. Ora le cose però sembrano cambiate.
Dati in caduta
Al momento, secondo la testata indipendente +972, non sono disponibili dati ufficiali sul fenomeno. A metà marzo l’esercito ha informato il ministro della Difesa Israel Katz che l’85 per cento dei riservisti stava rispondendo alla chiamata, rispetto al 120 per cento registrato dopo il 7 ottobre 2023. Ma, secondo l’emittente pubblica israeliana Kan, il tasso effettivo, escludendo i volontari che vengono assegnati di volta in volta a battaglioni diversi e tornano alle rispettive unità quando arriva la chiamata ufficiale, è in realtà più vicino al 60 per cento. Altre fonti parlano di tassi del 50 per cento o inferiori. Se questi dati fossero confermati, secondo +972, si tradurrebbero in quasi 100 mila soldati in meno rispetto agli inizi dell’offensiva nella Striscia, quando l’esercito aveva dichiarato di aver reclutato circa 295 mila riservisti, oltre ai circa 100 mila militari in servizio regolare.
L’esercito ha assicurato di disporre di un «organico sufficiente per svolgere le proprie missioni». Tuttavia, secondo il quotidiano Yedioth Ahronoth, in una riunione a porte chiuse il capo di stato maggiore avrebbe parlato di carenze significative negli effettivi, che avrebbero potuto pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi bellici a Gaza.
L’ultima offensiva
Questo non ha impedito all’esecutivo di lanciare, il 16 maggio scorso, una nuova offensiva via terra, accolta da dichiarazioni all’apparenza indifferenti alle accuse di genocidio che si stanno facendo strada nei tribunali internazionali. Come quelle del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, secondo cui Gaza «sarà completamente distrutta» e i palestinesi, in preda alla «totale disperazione», saranno spinti a lasciare finalmente il loro territorio. Ancora più esplicito Moshe Feiglin, ex parlamentare del Likud di Netanyahu, che ha tenuto a sottolineare come «ogni bambino a Gaza è il nemico».
Il nuovo piano prevede che il maggior numero possibile di abitanti di Gaza, già uno dei luoghi più sovraffollati al mondo prima della guerra, saranno spinti in un’area pari ad appena il 25 per cento della Striscia. Nei primi giorni la nuova offensiva ha già causato centinaia di vittime, mentre due mesi di blocco degli aiuti alimentari, alleviato solo in minima parte, ha aumentato il rischio di carestia. Già in precedenza più di due terzi della popolazione della Striscia dipendeva dagli aiuti internazionali. Tra il 1° aprile e il 10 maggio, circa 1,95 milioni di persone, o il 93 per cento della popolazione, era classificato in una situazione di insicurezza alimentare acuta a livello di “crisi” (fase 3 IPC) o peggio. Tra queste, 244 mila persone si trovava nella fase 5 IPC (“catastrofe” o “carestia”) e 925 mila nella Fase 4 dell’IPC (“emergenza”).
Tra gli obiettivi, in un documento trasmesso dal governo ai comandanti, vengono citati il «controllo operativo» di Gaza e «la concentrazione e la mobilitazione della popolazione». Il rilascio degli ostaggi, secondo il quotidiano Haaretz, è finito invece al sesto e ultimo posto.
Questione di “fede”?
Il sostanziale disinteresse nella sorte degli ostaggi viene citato dalla sociologa e attivista israeliana dell’Università ebraica di Gerusalemme, Yael Berda, come uno dei fattori che hanno contribuito alla perdita di fiducia nelle istituzioni e nella scelta di molti di rifiutare la chiamata dell’esercito. «C’è un divario intollerabile tra ciò che il governo ha dichiarato di fare e ciò che ha effettivamente fatto», ha spiegato a +972. «E questo divario fa perdere fiducia alle persone»
Secondo un recente sondaggio dell’emittente Channel 12, solo il 25 per cento degli intervistati concorda con il governo nel ritenere prioritaria la distruzione di Hamas rispetto alla liberazione degli ostaggi, mentre il 54 per cento dichiara che la decisione di allargare il conflitto è legata a esigenze politiche, a fronte del 36 per cento che ritiene vi siano motivi sostanziali per lanciare una nuova offensiva.
La scelta di non rispondere alla chiamata era già stata rivendicata da molti dei manifestanti che, prima ancora del 7 ottobre, contestavano le riforme della giustizia del governo Netanyahu. All’epoca il primo ministro israeliano era stato netto, parlando di «minaccia» al «fondamento della nostra esistenza» che «non deve trovare posto tra le nostre fila». A rendere il tema politicamente delicato era anche la questione delle esenzioni concesse agli ultraortodossi, alleati chiave dei governi Netanyahu che anche nelle scorse settimane hanno minacciato di disertare il Parlamento se non sarà approvata una legge per evitare la leva agli studenti religiosi. Ma con gli attacchi del 7 ottobre 2023 i manifestanti avevano messo da parte la contestazione e il fenomeno era evaporato.
Storie di rifiuto
Poi negli ultimi mesi, come riporta anche l’agenzia di stampa statunitense Associated Press, è iniziato ad aumentare il numero di soldati che rifiutano di continuare a combattere a Gaza per motivi etici o politici.
È il caso di Yotam Vilk, sconvolto dall’uccisione di un adolescente palestinese disarmato. «È morto come parte di una storia più grande. Come parte della politica di rimanere lì e non considerare i palestinesi come persone», ha spiegato il 28enne all’agenzia di stampa statunitense, a cui ha detto di aver visto uccidere almeno 12 persone. Anche Eran Tamir, un riservista che ha completato quattro missioni a Gaza negli ultimi 18 mesi, è rimasto sconvolto dal conflitto. Questa guerra, ha scritto in una lettera aperta al portale israeliano Walla, si basa su una «menzogna morale». «Dicono che si tratta di liberare gli ostaggi; di una questione di vita o di morte per Israele e che Hamas sarà sconfitto», ha aggiunto. «Ma è un inganno. Non mi perdonerei se continuassi il servizio». «Ho servito per proteggere il mio popolo ma questa guerra va contro i suoi interessi», ha precisato invece sui social Michael Majer, un ex ufficiale dell’intelligence militare. «La reazione militare è motivata dalla vendetta», ha invece spiegato l’ex soldato Ofer Ziv alla Cnn, dopo aver firmato una lettera in cui dichiara, insieme ad altri 40 commilitoni, di non voler più combattere.
Prese di posizione simili sono rare nel dibattito pubblico israeliano, come dimostra il recente caso di Yair Golan, general maggiore della riserva attualmente a capo del partito I Democratici, formazione di centrosinistra nata dalla fusione del Partito laburista israeliano con il movimento Meretz.
Negli scorsi giorni è finito nell’occhio del ciclone per aver affermato che «un Paese sano di mente non si impegna in combattimenti contro i civili» e «non uccide bambini per hobby». Per tutta risposta il ministro della Difesa Israel Katz ha annunciato che gli sarà vietato permanentemente il servizio di riserva, l’uso dell’uniforme militare e l’accesso alle basi militari. Questo nonostante dichiarazioni che in passato non si erano discostate dalla linea governativa, come quando aveva chiesto di tagliare tutti gli aiuti umanitari a Gaza dopo il 7 ottobre 2023 per ottenere la liberazione degli ostaggi: «Gli deve essere detto: “sentite, finché non saranno liberi non ci importa se morite di fame», aveva dichiarato allora Golan. «È completamente legittimo».
Alcuni riservisti invece hanno dato vita a un movimento per chiedere di dare priorità al ritorno degli ostaggi. «Oggi è chiaro che il proseguimento della guerra a Gaza non solo ritarda il ritorno degli ostaggi dalla prigionia, ma mette anche in pericolo le loro vite: molti ostaggi sono stati uccisi dai bombardamenti delle Idf, molti di più di quelli salvati nelle operazioni militari per liberarli», si legge nella lettera firmata dai “Soldati per gli ostaggi”, che finora ha raccolto circa 300 firme. Anche in questo caso, come nell’ondata di proteste contro la riforma giudiziaria, le critiche si soffermano sulla figura di Netanyahu e sulla destra al governo, piuttosto che su altri temi come la questione palestinese.
Motivazioni diverse
«Ci sono sempre più persone che potrebbero non necessariamente preoccuparsi dei palestinesi ma che non si sentono più a loro agio con gli obiettivi della guerra», ha dichiarato Yuval Green, medico di 27 anni che ha aderito dopo essersi rifiutato di continuare a combattere nella Striscia dopo che il suo comandante ha ordinato ad altri soldati di bruciare un’abitazione.
Accanto a chi protesta su base morale o politica, ci sono migliaia di persone che scelgono la via del «rifiuto silenzioso», come scrive il New Yorker. Molti lo fanno per motivi economici: secondo un sondaggio del Servizio per l’Impiego israeliano, il 48 per cento dei riservisti ha conseguito una perdita significativa di reddito dal 7 ottobre 2023, mentre il 41 per cento ha affermato di essere stato licenziato o costretto a lasciare il lavoro a causa dei lunghi periodi trascorsi in servizio. Oltre alla leva obbligatoria a 18 anni, che l’anno scorso il governo ha chiesto di aumentare da 32 a 36 mesi, gli israeliani sono tenuti a prestare servizio come riservisti fino all’età di 40 anni. Per evitare tensioni, il governo non ha contrastato il fenomeno con la stessa durezza con cui vengono invece puniti i giovani che rifiutano la leva obbligatoria, condannati a pene detentive di svariati mesi.
Nel tentativo di ovviare al problema, l’esercito ha consentito ad alcuni soldati di alternare una settimana di servizio e una a casa e di essere comunque retribuiti. Una tattica che prima si applicava solo a mansioni poco appetibili, come cuochi e guardiani. Secondo Yedioth Ahronoth, ora invece è diventato prassi comune.
Per cercare di sopperire alle assenze, diverse unità hanno preso l’iniziativa arrivando a pubblicare direttamente annunci sui social media promettendo condizioni flessibili, senza verifiche ai precedenti penali. «Ci manca davvero gente, chiunque possa venire ci aiuta», uno degli appelli letti da Haaretz. «Non sono più i tempi dell’inizio della guerra, quando tutti volevano arruolarsi».