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La Corte Internazionale di Giustizia ordina a Israele di sospendere l’offensiva a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Ecco cosa può succedere ora

Immagine di copertina
© ICJ-CIJ

La Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato a Israele di sospendere l’offensiva militare a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, ma Tel Aviv ha già fatto sapere che non si fermerà mentre Hamas ha accolto con favore la decisione, anche se la ritiene “insufficiente” per porre fine alla guerra.

Il collegio dei giudici de L’Aja guidato dal presidente della Corte Nawaf Salam, con una maggioranza di 13 voti a 2, ha così accolto l’istanza presentata il 10 maggio dal Sudafrica per un’ordinanza urgente a tutela “del popolo palestinese di Gaza dalle violazioni gravi e irreparabili dei suoi diritti (…), ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, a seguito delle continue azioni militari di Israele a Rafah”.

La situazione umanitaria a Rafah, ha sottolineato il giudice Salam presentando la nuova ordinanza, è “ulteriormente peggiorata” dall’ultimo pronunciamento della Corte del 28 marzo ed è attualmente considerata “disastrosa”. “La Corte non è convinta che gli sforzi di evacuazione e le relative misure che Israele afferma di aver intrapreso per rafforzare la sicurezza dei civili nella Striscia di Gaza e in particolare di quelli recentemente sfollati dal governatorato di Rafah siano sufficienti ad alleviare l’immenso rischio a cui popolazione palestinese è esposta a seguito dell’offensiva militare cominciata il 6 maggio”, ha aggiunto il presidente del Tribunale dell’Onu. “Esiste” invece, secondo i giudici, “un reale e imminente rischio” per i civili.

“Per questi motivi”, ha proseguito Nawaf Salam, “Israele deve immediatamente fermare l’offensiva a Rafah”. Inoltre, sempre con una maggioranza di 13 a 2, i giudici hanno ordinato a Tel Aviv di tenere aperto il valico di confine tra la città palestinese e l’Egitto per motivi umanitari e per permettere l’ingresso di aiuti destinati alla popolazione. Lo Stato ebraico inoltre deve consentire l’accesso alla Striscia di Gaza “a qualsiasi comitato, commissione d’inchiesta o organismo investigativo incaricato dagli organi competenti delle Nazioni Unite di indagare sulle accuse di genocidio”. La Corte ha quindi ingiunto a Israele di presentare, entro un mese, un rapporto su “tutte le misure adottate” per rispettare l’ordinanza.

Il nuovo pronunciamento dei giudici de L’Aja dispone così ulteriori “misure provvisorie” riguardo il processo cominciato l’11 gennaio su istanza di Pretoria, dopo l’ordinanza del 26 gennaio e quella del 28 marzo, che imponevano a Tel Aviv di “adottare tutte le misure in suo potere per prevenire atti di genocidio” dei palestinesi e di migliorare “senza indugio” la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza, dove almeno 35.800 persone sono morte e più di 80mila sono rimaste ferite dal 7 ottobre.

La risposta di Israele
Lo Stato ebraico aveva già fatto sapere ieri che non interromperà le operazioni a Rafah, dove Tel Aviv ritiene che si trovino quattro degli ultimi sei battaglioni di Hamas, insieme a molti degli ostaggi rapiti il 7 ottobre.

“Nessun potere sulla Terra impedirà a Israele di proteggere i suoi cittadini e di attaccare Hamas a Gaza”, aveva ribadito ieri in conferenza stampa il ​​portavoce del governo israeliano, Avi Hyman, rispondendo a una domanda sull’intenzione o meno di Israele di rispettare un’eventuale nuova ordinanza dei giudici de L’Aja.

Al contrario, poche ore dopo, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant aveva confermato che Tel Aviv “sta rafforzando” le truppe truppe a Rafah. “Questa operazione andrà avanti e vedrà un maggiore dispiegamento, con più soldati sul campo, più forze aeree, per raggiungere i nostri obiettivi: sferrare un duro colpo a Hamas, privarli delle loro capacità militari e creare le condizioni necessarie per riportare gli ostaggi a casa”, aveva detto Gallant durante una visita al fronte.

Dichiarazioni confermate dagli sviluppi sul campo dell’operazione di terra cominciata il 6 maggio scorso: i carri armati israeliani continuano infatti ad avanzare in città in direzione ovest e sono ormai vicini agli affollati quartieri di Yibna e di Ash-Shaboura, che ospita un campo profughi, al centro di Rafah. Qui, negli ultimi mesi, si erano rifugiati quasi 1,4 milioni di sfollati provenienti da tutta la Striscia di Gaza ma dall’inizio dell’offensiva, secondo le stime dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), 800mila persone hanno dovuto lasciare la città.

La reazione di Hamas
Hamas ha accolto con favore l’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia, invitando però i giudici de L’Aja a prendere “una decisione per porre fine all’aggressione e al genocidio contro il nostro popolo nell’intera Striscia di Gaza, non solo a Rafah”. “Ciò che sta accadendo a Jabalia e in altre aree del territorio”, si legge in una nota diramata dal gruppo terroristico palestinese a poche ore dal pronunciamento del Tribunale dell’Onu, “non è meno criminale e pericoloso di quanto sta accadendo a Rafah”.

La decisione della Corte, secondo l’esponente del gruppo armato Basem Naim, non è “sufficiente” visto che non riconosce quella che definisce “la brutale e pericolosa aggressione” dello Stato ebraico nel resto della Striscia. “Crediamo che non sia sufficiente dal momento che l’aggressione dell’occupante (Israele, ndr) in tutta la Striscia di Gaza, soprattutto nel nord, è altrettanto brutale e pericolosa”, ha detto oggi Naim all’agenzia di stampa Reuters.

Tuttavia, Hamas ha chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di far rispettare l’ordinanza, soprattutto in merito alla richiesta della Corte di consentire alle commissioni investigative dell’Onu di entrare nella Striscia per indagare sulle accuse di genocidio contro il popolo palestinese. “Hamas si impegna a collaborare con le commissioni d’inchiesta”, ha aggiunto Naim.

Nel comunicato diramato oggi, il gruppo ha invitato “l’intera comunità internazionale e le Nazioni Unite a fare pressione sull’occupante (Israele, ndr) affinché si attenga immediatamente a questa decisione”, affermando che i Paesi del Consiglio hanno la “responsabilità storica di sostenere il principio della giustizia internazionale”.

Cosa può succedere ora
Le ordinanze della Corte Internazionale di Giustizia sono giuridicamente vincolanti ma prive di meccanismi di esecuzione diretta. Per questo, vista l’indisponibilità di Israele a rispettare l’ordinanza, i palestinesi e gli Stati come il Sudafrica che in sede internazionale hanno intentato l’azione legale per genocidio contro Tel Aviv saranno costretti a rivolgersi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per farla rispettare.

In questa sede, lo Stato ebraico chiederà probabilmente agli Stati Uniti di opporre il veto contro qualsiasi risoluzione che obblighi Tel Aviv a fermare i combattimenti. Tuttavia, una bozza che chieda la sospensione delle sole operazioni a Rafah, a cui da tempo Washington si dice contraria, potrebbe anche passare viste le recenti crepe nei rapporti tra la Casa bianca e il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Come riportato ieri dal quotidiano Yedioth Ahronoth, l’ordinanza odierna potrebbe avere effetti anche sull’altro caso aperto a L’Aja presso la Corte penale internazionale (Cpi), un ente autonomo che nulla ha a che fare con la Corte Internazionale di Giustizia, che invece è un organismo dell’Onu.

In settimana, il Procuratore capo della Cpi, Karim Kahn, ha chiesto ai giudici de L’Aja di emettere una serie di mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del suo ministro della Difesa Yoav Gallant, nonché per i leader di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Ismail Haniyeh, con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità durante il conflitto in corso nella Striscia di Gaza e per gli attentati del 7 ottobre in Israele.

Come detto i due casi sono separati ma, avendo entrambe le Corti sede a L’Aja ed essendo considerati i più importanti tribunali al mondo in materia di diritto internazionale, Israele teme che un’atmosfera negativa e una narrazione sfavorevole nei suoi confronti tra i professionisti legali che frequentano entrambi i fori possano influenzare le decisioni dei giudici coinvolti.

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