Il genocidio in Sudan di cui non parla nessuno
Migliaia di civili massacrati, donne e bambini stuprati, villaggi distrutti e milioni di persone in fuga. La guerra civile in Sudan ha trasformato il Darfur in un inferno. Dove violenze sistematiche e pulizie etniche continuano nell’indifferenza del resto del mondo
Negli ultimi due anni si è discusso a lungo del termine genocidio in riferimento al conflitto israelo-palestinese. Mentre il mondo guardava altrove, in Darfur, regione occidentale del Sudan, si è consumato un altro genocidio di cui si è parlato poco o nulla. Migliaia di civili uccisi, comunità sradicate, famiglie disperse e bambini traumatizzati: così vaste aree del Sudan, e in particolare modo il Darfur, sono diventate teatro di una tragedia umanitaria dilagante. A parlare sono i numeri, impressionanti, di questa catastrofe senza fine che coinvolge circa 14 milioni di persone, ossia più di un quarto della popolazione sudanese. Oltre 9 milioni di persone risultano sfollate in Sudan, costrette a fuggire dalle proprie case a causa di persecuzioni e distruzione di villaggi. A queste si aggiungono circa 4 milioni di rifugiati che hanno attraversato i confini cercando protezione nei Paesi vicini: una diaspora forzata che sta mettendo a dura prova la stabilità della regione africana.
Solo nella prima metà del 2025, secondo i dati di UN Human Rights Office, sono state uccisi almeno 3.384 civili con la maggior parte delle morti registrate prevalentemente in Darfur, ma anche nelle regioni di Kordofan e Khartoum. Non si tratta di vittime collaterali della guerra civile ma anche di civili giustiziati deliberatamente. Almeno 990 uccisioni, infatti, sono frutto di esecuzioni sommarie avvenute al di fuori dei combattimenti. A essere presi di mira sono soprattutto i campi per sfollati: secondo quanto rivelato dal The Guardian, infatti, nelle ultime settimane gli Zamzam camp e Abu Shouk camp, fra i più grandi campi per sfollati, sono stati attaccati, distrutti e saccheggiati: si stima che fino a 400mila persone siano state nuovamente sfollate in un’unica operazione. Un numero preciso di vittime neanche c’è ed è altamente probabile che il conflitto abbia generato molti più morti di quelli finora registrati: le difficoltà di accesso e le condizioni sul campo, infatti, rendono difficile una reale e precisa fotografia di quanto sta accadendo in Sudan.
Senza pace
Ma come si è arrivati a questo punto? La storia del Darfur è già segnata da un genocidio, avvenuto tra il 2003 e il 2008, con la crudele repressione della rivolta locale da parte di milizie fedeli al regime di allora. Le violenze sono sfociate nuovamente nell’aprile del 2023 quando le Rsf (Forze di Supporto Rapido), composto principalmente dalle milizie Janjawid, che hanno lottato al fianco del governo sudanese durante la prima guerra nel Darfur, hanno dato vita a una guerra civile per la conquista del potere contro l’esercito sudanese. In questi due anni le milizie guidate da Mohamed Hamdan Dagalo hanno condotto una sistematica campagna di attacchi contro le comunità non-arabe fino ad arrivare a conquistare, nell’ottobre del 2025, la città di El Fasher, capitale dello stato del Darfur Settentrionale, costringendo l’esercito sudanese a ritirarsi dalla città e consolidando, così, il controllo su quasi tutta la regione.
In questa occasione, l’esercito sudanese ha accusato le Rsf di aver «giustiziato più di duemila civili disarmati», distrutto tutte le strutture sanitarie, le fonti d’acqua e la centrali elettriche. El Fasher è stato teatro di un massacro documentato persino dalle immagini satellitari. In alcune foto pubblicate in un report dell’Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale, infatti, si possono notare non solo centinaia di corpi ammassati nelle strade ma anche diversi casi di «scolorimento rossastro della terra»: questo indicherebbe la presenza di fosse comuni.
Le testimonianze
I massacri a opera delle Rsf sono stati documentati anche attraverso alcune testimonianze raccolte da Amnesty International. È il caso del 34enne Khalil, il quale, dopo essere fuggito da El Fasher, è stato fermato con altre 20 persone da un convoglio di auto delle Rsf: «Ci hanno ordinato di sdraiarci a terra poi due di loro hanno aperto il fuoco – ha raccontato – Hanno ucciso 17 delle 20 persone che erano con me. Sono sopravvissuto fingendomi morto. Nessuna delle persone uccise era un soldato armato». Il 26enne Badr, invece, ha raccontato che gli uomini delle milizie si «divertivano e ridevano» mentre uccidevano i civili. Oltre alle esecuzioni sommarie, si registrano numerosi caso di violenza sessuale sistematica, contro donne, ragazze, ma anche, secondo numerose segnalazioni, contro bambini e ragazzi. «Uno mi ha costretta ad andare con loro, ha lacerato la mia jalabiya e mi ha stuprata. Quando sono andati via si è avvicinata una delle mie figlie, di 14 anni. I suoi vestiti erano strappati e insanguinati, i capelli dietro la testa erano pieni di polvere. Mi ha detto: “Mamma hanno stuprato anche me ma non dirlo a nessuno.” Dopo lo stupro, mia figlia si è ammalata. Quando abbiamo raggiunto Tawila l’hanno ricoverata ma è morta», è la testimonianza di Ibtisam. Sempre a Amnesty International, Khaltoum, 29 anni, ha raccontato che cosa le è successo una volta arrivata al campo Zamzam con la figlia e altre venti donne: «Hanno preso me e altre 11. Un uomo armato e un altro senza armi mi hanno portato in un rakuba dove mi hanno perquisita. Sono rimasta lì tutto il giorno e sono stata stuprata tre volte dall’uomo privo di armi, mentre quello armato guardava. Mia figlia non è stata stuprata ma le altre 10 donne sì». Le atrocità, però, non finiscono qui. I villaggi, infatti, vengono rasi al suolo per impedire il ritorno delle comunità originarie e la popolazione viene ridotta la fame. Strutture sanitarie, distribuzione di acqua e cibo e convogli umanitari, infatti, sono stati bloccati, distrutti o attaccati. Con il risultato che centinaia di persone muoiono non solo per pallottole, ma anche per fame, malattie e privazione. Se la milizia Rsf è indicata come principale responsabile degli attacchi, anche l’esercito sudanese (Saf) è accusato di violazioni di diritti umani, esecuzioni, attacchi indiscriminati, in particolare modo in operazioni di riconquista o «ripulitura» di aree, compresi raid in quartieri civili.
Quello che sta accadendo in Sudan, e in particolare modo nel Darfur, avrà effetti devastanti anche sulle future generazioni. Intere famiglie sono state sradicate e costrette a fuggire. L’interruzione della vita sociale distruggerà la classa media con, come sottolinea Forbes, lo «svuotamento» sociale e culturale dell’intero Darfur e di vaste aree del Sudan. La crisi, inoltre, si ripercuoterà inevitabilmente anche su altre aree dell’Africa alle prese con milioni di rifugiati che attraversano i confini per sopravvivere ai massacri. Per non parlare dell’infanzia spezzata dei bambini, sfollati, separati dalle famiglie o orfani e privi di istruzione e futuro con conseguenze psicologiche, educative, sociali incalcolabili.
Responsabilità internazionali
Nonostante organismi internazionali come le Nazioni Unite abbiano denunciato le gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e chiesto un cessate un fuoco immediato, la guerra civile in Sudan continua a rimanere sottotraccia, non solo nel racconto dei media ma anche e soprattuto nell’azione dei governi. Aldilà di promesse di aiuti, sanzioni e protezione, infatti, nessun governo sembra pronto a intervenire con decisione. Questo perché, dietro la guerra, si celano anche interessi geopolitici ed economici. Come confermano diversi rapporti dell’Onu e di ricercatori indipendenti, infatti, le Rsf possono contare sul sostegno degli Emirati Arabi Uniti, importante partner economico di Stati Uniti e Francia. L’esercito sudanese, comandato dal generale Abdel Fattah al Burhan, invece, è sostenuto dall’Egitto e dall’Arabia Saudita: una «resa dei conti», dunque, sarebbe scomoda per attori con interessi economici o di influenza motivo per cui si verificano casi di reticenza politica o diplomatica.
Solamente pochi media hanno dedicato tempo e spazio al genocidio in Sudan. Non per proteggere un autocrate verso cui sono troppo compiacenti, come spesso accade, ma più semplicemente perché, dietro questo conflitto, non ci sono particolari interessi. Eppure, la crisi in Darfur e in molte altre zone del Sudan non è un semplice conflitto «tra fazioni». È un genocidio silenzioso: un’ondata di violenza, terrore, distruzione che colpisce civili innocenti, spezza vite e comunità e cancella terre e identità. Parlarne non è solo un dovere, ma è un modo per accendere ancora una volta i riflettori su una tragedia che ci riguarda tutti quanti. Solo sfidando l’indifferenza si può ridare dignità alle vittime e chiedere verità e giustizia.