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Il genocidio armeno, cento anni dopo

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Il 24 aprile ricorre il centesimo anniversario dall'inizio del genocidio degli armeni, che tra il 1915 e il 1923 costò la vita a un milione e mezzo di persone

Costantinopoli, 24 aprile 1915. Con l’arresto di oltre duemila armeni – politici, intellettuali, commercianti, giornalisti e studenti – l’impero Ottomano iniziava il primo genocidio del Novecento.

Venerdì 24 aprile l’Armenia celebrerà il centenario del Metz Yeghérn, il grande male che ha causato un milione e mezzo di morti nell’indifferenza del mondo: il genocidio che la Turchia nata sulle ceneri dell’Impero Ottomano non ha mai riconosciuto, nonostante le innumerevoli vittime.

L’Armenia è un piccolo Paese sulle montagne del Caucaso, tornato indipendente nel 1991 dopo cinque secoli di dominio straniero. Quando all’inizio dell’Ottocento il territorio storicamente abitato dalle popolazioni armene fu diviso fra tre imperi – ottomano, russo e persiano -, l’Anatolia guadagnò circa tre milioni di armeni, quasi tutti contadini.

A fine secolo gli armeni subirono i primi stermini, sussulto reazionario di un impero morente. Il genocidio del 1915-1916 avvenne nel cuore della prima guerra mondiale che gli Ottomani combattevano alleati con la Germania; al governo c’erano i Giovani turchi, un movimento nazionalista che vedeva nell’Anatolia l’anima turca da salvare dall’imminente dissoluzione.

Le deportazioni degli armeni cominciarono ad aprile nelle regioni orientali, in Cilicia e nella zona di Van. A maggio vennero autorizzate per legge insieme alla confisca dei beni; subito dopo i musulmani rifugiati dai territori perduti dell’impero furono autorizzati a sistemarsi nelle case libere.

“La guerra mondiale fu l’occasione per eliminare definitivamente gli armeni dal cuore della patria”, spiega lo storico Marcello Flores, professore di Storia comparata nell’Università di Siena.

“Il genocidio è stato un progetto politico, demografico ed etnico. Sarebbe però fuorviante contrapporre gli armeni cristiani contro gli ottomani musulmani: il fattore religioso non è stato determinante e anzi, i capi religiosi islamici chiesero immediatamente ai Giovani Turchi di interrompere i massacri”.

Le violenze furono legalizzate a giugno, quando il ministro dell’Interno, Talaat Pasha, autorizzò l’uccisione di chi opponeva resistenza. Ci furono assassinii, mutilazioni, stupri e torture. L’ordine di deportazione riguardava prima gli uomini sopra i 13 anni, che venivano sterminati non appena usciti dal paese;  poi toccava a donne, vecchi e bambini.

Ai massacri parteciparono l’esercito, gruppi paramilitari organizzati dal governo, clan curdi, bande di criminali e popolazioni musulmane non turche (circassi, ceceni, tatari).

Dopo un’estate di pulizia etnica, a inizio settembre non c’erano più comunità armene nell’Impero, se non nelle grandi città di Costantinopoli, Smirne e Aleppo. Solo il 20 per cento dei deportati riuscì a raggiungere davvero la destinazione finale, il deserto della Siria.

A guerra finita partirono i processi, con l’Impero Ottomano allo sfascio: molti responsabili fuggirono e i pochi condannati a morte diventarono “eroi nazionali” per il nuovo Governo rivoluzionario di Ankara.

Con la nascita della Repubblica turca e  il passaggio dell’Armenia sotto il dominio sovietico, sul tema del genocidio cadde il silenzio. Bisognerà aspettare le ricerche storiche degli anni Sessanta perché il tema torni d’interesse internazionale, ma le azioni di terrorismo politico – uccisione di diplomatici turchi, dirottamento di aerei e attentati – rivolsero l’opinione pubblica contro gli armeni.

A cent’anni dal genocidio sono poco più di 20 i Paesi del mondo ad averlo riconosciuto. Tra questi c’è l’Italia.

“Ma il Governo sta ben attento a non utilizzare il termine “genocidio” per motivi di opportunismo politico”, commenta il professore Marcello Flores. “Si cerca di non urtare la sensibilità della Turchia e dell’Azerbaijan, importanti partner economici”.

La Turchia si trincera da sempre dietro a un fervente negazionismo. Nel 2005 lo scrittore Orhan Pamuk è stato accusato da un tribunale turco di denigrazione dell’identità nazionale, per aver parlato a un quotidiano svizzero “del milione di armeni uccisi”.

Anche se le frontiere tra Turchia e Armenia sono chiuse dal 1993 – decisione turca a sostegno del Nagorno, la regione dell’Azerbaijan occupata dagli armeni – i rapporti sembravano migliorati.

Nel 2014, per la prima volta,  il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha riconosciuto che nel 1915 ci furono dei “massacri”.  Ma è bastato che il Papa menzionasse la parola “genocidio” per generare una reazione stizzita e la minaccia di espellere dalla Turchia 100mila armeni.

La capitale Yerevan si prepara a ricordare il Grande Male con la riapertura del Dzidzernagapert, il Museo del Genocidio, e tutte le comunità della diaspora – gli armeni nel mondo sono più di cinque milioni, quasi il doppio di quelli in patria – hanno organizzato eventi di commemorazione.

“Il genocidio è una storia di famiglia che si tramanda di generazione in generazione”, spiega Sos Avetysan, 25 anni, di Yerevan. Sos studia storia all’Università di Oxford e ha amici di tutte le nazionalità, turchi compresi. “Purtroppo non tutti conoscono cosa accadde cent’anni fa e ogni tanto ci sono delle tensioni”.

Nuray Kil, ventunenne studentessa turca in Erasmus in Repubblica Ceca, conferma: “Gli armeni non sono amichevoli con noi turchi. Ma è normale e li capisco. Anche se il nostro Governo nega, io so che c’è stato un genocidio. E proprio per questo voglio essere gentile con gli armeni”.

“A scuola ci insegnano quello che ripete Erdogan”, aggiunge Eray Akbas, 23 anni, studente di informatica a Istanbul. “Chi sono i responsabili dei massacri? Non ne ho idea. Per i nostri libri ci furono solo migrazioni forzate: la gente morì lungo la strada perché era stanca e malata”.

I responsabili del genocidio armeno non sono famosi come Hitler, Goering e Goebbels, ma furono individuati nei processi ottomani e la ricerca storica ha confermato quanto stabilito dalle sentenze. Si tratta del triumvirato che guidava il governo dei Giovani turchi: il potentissimo ministro dell’Interno, Talaat Pasha; il ministro della Marina, Cemal Pasha; il ministro della guerra, Ismail Enver.

Quando furono condannati a morte erano già fuggiti, ma non bastò per farla franca. Nel 1919 il partito armeno Dashnak presentò infatti “l’operazione Nemesis”: una lista di 700 persone da giustiziare, con l’elenco dei condannati in contumacia e gli scampati alle sentenze.

Si “salvò” solo Ismail Enver, che morì nel 1922 nel Turkestan in battaglia contro i bolscevichi. Cemal Pasha fu ucciso lo stesso anno a Tbilisi, in Georgia.

Il coordinatore generale del genocidio armeno, il ministro dell’interno Talaat Pasha, fu scovato a Berlino. Venne ucciso il 15 marzo del 1921 con un colpo di pistola alla nuca, mentre camminava nel quartiere di Charlottenburg.

L’assassino si chiamava Soghomon Tehlirian ed era un ragazzo armeno di 25 anni sopravvissuto al genocidio. Al magistrato disse di aver agito su “mandato” della madre, del fratello, della sorella, della famiglia e dell’intero popolo armeno. Fu processato per omicidio. Tre mesi dopo arrivò la sentenza: “Non colpevole”.

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