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Home » Economia

Che fine ha fatto la concorrenza? Così gli oligopoli danneggiano lavoratori e consumatori

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Dalla tecnologia al commercio. Dalla finanza all’energia. Dalle telecomunicazioni alla moda. Ormai tutti i settori economici sono dominati da un gruppo di poche grandi aziende. Che vedono costantemente accrescere il proprio peso

Lo scorso 16 ottobre Nestlè, il più grande gruppo alimentare del mondo per fatturato, ha annunciato che licenzierà 16mila lavoratori a livello globale entro il 2027. La notizia ha destato sorpresa nel settore: è vero che nei primi sei mesi di quest’anno i conti della multinazionale sono peggiorati, ma il bilancio è comunque rimasto ampiamente in utile con un segno più da 5 miliardi di euro a metà esercizio. Nell’idea del nuovo amministratore delegato Philipp Navratil, il massiccio piano di tagli contribuirà a far centrare l’obiettivo di ottenere un risparmio da 3 miliardi di euro nel prossimo biennio. 

Per quanto la mossa possa indignare e destare allarme, c’è poco da stupirsi: quando un gigante si muove non bada a chi rischia di restare schiacciato sotto i suoi passi. E non c’è dubbio che Nestlè sia ascrivibile alla categoria dei giganti.

In un mondo in cui la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani, chi non fa parte del club delle élite è condannato a una posizione di eterna debolezza. 

Ogni settore economico ha i suoi dominatori assoluti, dalla grande distribuzione all’abbigliamento, dalla finanza all’energia, dalle telecomunicazioni alla farmaceutica, e c’è un campo in cui l’egemonia di un gruppo di aziende è ancora più evidente che altrove: la tecnologia, dove le cosiddette Big Tech costituiscono un ormai conclamato caso di oligopolio. Basti pensare che tra il 2017 e il 2025, nel digitale, la quota di ricavi complessiva delle cinque maggiori aziende è più che raddoppiata, passando dal 21% al 48%.

Le più basilari leggi dell’economia dicono che, laddove c’è un’elevata concentrazione industriale, la concorrenza si riduce. E se viene a mancare la concorrenza, i primi a rimetterci sono i lavoratori. 

L’esempio più noto di questo meccanismo perverso è Amazon. Pochi giorni fa ol colosso dell’e-commerce – da tempo accusato di sfruttare i propri addetti imponendo ritmi frenetici in cambio di stipendi inadeguati –  ha annunciato che licenzierà 14mila dipendenti adducendo una non meglio precisata «questione di cultura aziendale». Non solo: il New York Times ha recentemente rivelato che la multinazionale fondata e guidata da Jeff Bezos – il secondo uomo più ricco del mondo –prevede di evitare l’assunzione di oltre 600mila lavoratori negli Stati Uniti entro il 2033 sostituendoli con dei robot. E ciò nonostante stimi che nello stesso periodo le vendite raddoppieranno.

Più concentrazione
La concentrazione industriale – ossia la quota del fatturato di un settore concentrata tra le imprese più grandi – è considerata una delle metriche chiave utilizzate per approssimare il livello di concorrenza in un mercato. Ebbene, secondo un’analisi condotta in Europa dall’Ocse prendendo in esame 127 settori economici, tra il 2000 e il 2019 la concentrazione industriale è aumentata in media dal 26% al 32%. Energia, telecomunicazioni, trasporti e informatica sono tra i comparti in cui il fenomeno è più marcato.

Nello stesso rapporto si sottolinea anche come nel corso del ventennio sia diminuita l’instabilità della quota di mercato, un altro indicatore fondamentale, che misura la variabilità della quota di vendite delle aziende leader in un mercato da un anno all’altro. Questo calo, si legge nel documento, «indica un indebolimento della contendibilità tra i leader di mercato». E nei settori in cui c’è meno concorrenza, avverte l’Ocse, «i lavoratori ottengono una quota inferiore della produzione».

Attenzione, non è automaticamente così: l’economista Ann Harrison, ex preside della Haas School of Business dell’Università di Berkeley, ha pubblicato una ricerca nel gennaio 2024 da cui è emerso che «la relazione tra concentrazione e quota di lavoro dipende da come viene allocato il surplus derivante dal potere di mercato»: in Svezia, ad esempio, il forte potere contrattuale riconosciuto ai lavoratori tende a salvaguardare i loro salari. D’altro canto, però, la stessa Harrison – dopo aver analizzato milioni di dati di aziende pubbliche e private tra Svezia, Francia, Ungheria, Corea del Sud e Germania – rileva anche che una maggiore concentrazione del mercato provoca «inequivocabilmente»  un calo dell’occupazione: «Quando le aziende hanno potere di mercato, tendono a limitare l’offerta, ad aumentare i prezzi e a non impiegare molte persone», spiega la professoressa. «Se i lavoratori non hanno potere contrattuale, tutto quel surplus va ai proprietari. Ma se i lavoratori hanno molto potere contrattuale, possono spostare quella quota di lavoro su di sé».

Effetto Global
Negli ultimi trent’anni la concentrazione industriale è stata favorita da una serie di fattori concatenati fra loro. Tra i più determinanti, la globalizzazione.

L’apertura dei mercati, da un lato, è stata cavalcata con più agilità dalle imprese di dimensioni maggiori e, dall’altro, ha incentivato processi di aggregazione internazionale. Già nel 2001, in un report dell’Ocse, si notava che le fusioni e acquisizioni transfrontaliere e le alleanze strategiche «sono diventate vie comuni per internazionalizzare le attività aziendali, la ricerca e i mercati». Così, nel corso del tempo, si sono formati agglomerati economici sempre più forti con ramificazioni in ogni angolo del pianeta.

Peraltro, talvolta, con queste operazioni ci sono perseguiti interessi più predatori che squisitamente espansionistici: è il classico caso delle cosiddette «acquisizioni killer», che si verifica quando un’azienda ne acquisisce un’altra al solo scopo di interromperne i progetti di innovazione e anticipare la concorrenza futura.

Spesso, inoltre, la concentrazione è favorita da regolamentazioni antitrust non abbastanza stringenti. Ciò è vero specialmente negli Stati Uniti. Nel 2023 tre economisti della Northwestern University di Chicago hanno pubblicato un’analisi secondo cui le agenzie antitrust degli Usa bloccano i processi di fusione solo in casi estremi, quando si prevede che tali operazioni comporteranno un aumento dei prezzi in quel settore tra l’8 e il 9%: al di sotto di quella soglia, in media, le fusioni ricevono il via liberà. 

Anche l’innovazione tecnologica può contribuire a un aumento della concentrazione industriale: chi dispone di maggiori risorse da investire ha più possibilità di “fare innovazione”, e chi possiede tecnologie più avanzate rende di fatto più alte le barriere all’ingresso del mercato, che così diventa più difficilmente accessibile per le imprese meno strutturate.

Extra-profitti
Nel primo ventennio del Duemila lo strapotere lasciato alle aziende più grandi ha fatto impennare i loro margini di profitto. L’Ocse ha calcolato che tra il 2000 e il 2019 in Europa i ricarichi, ossia il divario tra il prezzo di un prodotto e il suo costo marginale di produzione, sono aumentati in media del 7%, con una dinamica più pronunciata nei settori a maggiore intensità digitale. Ciò, sottolinea sempre l’Ocse, «indica un aumento del potere di mercato, poiché le aziende possono aumentare i prezzi al di sopra dei costi marginali per realizzare maggiori profitti».ù

A pagare il costo di questi “extra-ricarichi” sono, da una parte, i lavoratori, i quali non traggono alcun beneficio dal rincaro del prodotto, e, dall’altra, i consumatori, i quali materialmente sostengono il peso dell’aggravio di prezzo ingiustificato.

Ancora una volta, il circolo vizioso innescato da un mercato dominato da poche grandi aziende contribuisce ad ampliare le disuguaglianze sociali ed economiche. I ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Se questo è il risultato del mercato libero, toccherebbe alla politica intervenire per riequilibrare le forze. Attendiamo (poco) fiduciosi.

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