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“Se dopo la pandemia non riflettiamo, resterà solo la paura”: parla uno dei più giovani direttori teatrali in Italia

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Diecimila volumi con rilegatura barocca riempiono le pareti, inquadrando un tavolo di legno lucido. Conto dodici sedie in velluto rosso. “È il suo ufficio?” chiedo. “Magari. È la Biblioteca dell’Accademia”. Mi accoglie Tommaso Amadio, 43 anni, che da quando ne ha 30 dirige, insieme a Bruno Fornasari, uno dei teatri più antichi di Milano.

Il Filodrammatici è a due passi dalla Scala, tra le sedi storiche di Trussardi e Mediobanca. La sua Accademia ha diplomato icone come Mariangela Melato, Sandra Mondaini e Franco Parenti. Manzoni, Garibaldi e D’Annunzio tra i soci onorari. Una tradizione nobile e secolare. Fast forward. È il 2008. Si apre un bando per la direzione del teatro, fino ad allora concesso in comodato d’uso a una cooperativa.

“Io e Bruno ci presentiamo con un progetto blasfemo: la creazione del primo teatro Shakespeare-free della città”. Niente più grandi classici, solo opere capaci di interpretare l’attualità. È la loro idea di drammaturgia contemporanea: uno storytelling farcito d’ironia, che smonti le contraddizioni del nostro tempo.

È quello che accade quando il sipario si apre su Sospetti, storia di abuso di potere a sfondo razziale, We Porn, che indaga il lato opportunistico della sessualità, Illecite Visioni, rassegna dedicata ai diritti LGBTQIA, o N.E.R.D.s, che mette a nudo l’instabilità di un’intera generazione in pieno stile Zerocalcare.

Inizialmente piovvero critiche.

“I giornali stroncarono l’operazione, certi che il teatro avrebbe chiuso a breve. In un paese gerontofilo come il nostro, il solo fatto che un ente privato così importante affidasse la direzione a due trentenni era un affronto all’intero settore. La convinzione di base era che il pubblico andasse a teatro solo perché rassicurato dalle opere classiche. Eppure Shakespeare era proprio questo: un autore che raccontava il proprio tempo, fruibile da chiunque”.

Ironia, attualità, immediatezza. Non esattamente le prime cose che vengono in mente pensando al teatro.

“Nella nostra testa esiste ancora l’idea di cultura alta e cultura bassa, che è ridicola. La differenza non è più tra teatro d’arte e teatro commerciale, ma tra chi utilizza l’intrattenimento come fine, vedi Zelig, e chi come mezzo. In ogni caso, oggi quell’aspetto non può mancare: se non riesco a sedurre lo spettatore, lo perdo dopo tre minuti”.

Quindi non è sempre colpa del pubblico.

“Non lo è mai. Dopo aver guardato un brutto film ti arrabbi, perché al cinema attribuisci la possibilità di entusiasmarti. Nel teatro, invece, per un ventennio è passato il principio scellerato per cui se non capisci è colpa tua. Ma il teatro non insegna: pone delle domande. È l’incontro paritetico di due gruppi, con la differenza che uno conosce la storia e l’altro ha voglia di farsela raccontare”.

Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui
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