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Home » Cultura

Creare due, tre, molte Columbia – Storie di un mondo in rivolta

Immagine di copertina

Un estratto del libro di Paolo Brogi, Ce n'est qu'un début, storie di un mondo in rivolta

New York. Il 23 aprile del 1968 un folto e deciso  gruppo di studenti della Columbia University occupa il campus più famoso della città, nella parte alta di Manhattan, al confine con Harlem. Nell’arco di poche ore gli occupanti diventano centinaia.

S&D

La sintonia con la costa est e con Berkeley in particolare, culla per anni del movimento di protesta americano, è molto forte.

A Berkeley il movimento per le libertà e contro la sporca guerra è stato attivo ormai da quattro anni e ha prodotto oltre a straordinarie mobilitazioni contro la guerra anche il  Free Speech Movement e il Women’s Right Movement, oltre a dare humus al nascente Black Power.

Nel ’68 si è aggiunta la lotta alla speculazione edilizia. Berkeley, forte dei suoi nove Nobel in cattedra, si è infatti mobilitata  come non mai contro la destinazione di un campo da gioco, prima frequentato dalla gente locale in genere di colore, a area di addestramento per le reclute da inviare in Vietnam. La vicenda farà da sfondo al film di Stuart Hagmann  “Fragole e sangue”. Speculazione e guerra, questo è nel mirino all’est. E questo è nel mirino anche all’ovest.

Alla Columbia University di New York l’occupazione scatta contro il progetto di destinare a futura palestra un’area confinante con Harlem, quartiere a prevalenza “nero”, fino a quel momento usata anche dai residenti locali. Si tratta del Morningside Park. I giovani occupanti chiedono inoltre di interrompere gli studi di ricerca della Columbia utilizzati dai militari per la guerra, nel mirino della protesta c’è in particolare il legame con l’Institut for Defense Analysis.

L’occupazione dura sette giorni, il 30 aprile la polizia interviene e arresta in massa gli studenti, oltre 700. Uno di loro era un italiano, giunto pochi mesi prima grazie a una borsa di studio dell’Harkness Foundation, il calabrese Enrico Pugliese.

Pugliese era arrivato nel settembre ’67 da Portici, dove era collaboratore di Manlio Rossi Doria. In tasca aveva la laurea in agraria. Lo accompagnava la moglie, Sigrid, sposata sette giorni prima della partenza per poter usufruire dei 150 dollari in più garantiti dalla borsa di studio agli sposati. Enrico Pugliese aveva detto no a un’altra borsa, la Fullbright, che lo avrebbe però destinato all’università dell’Indiana. Troppo decentrata l’Indiana, assai più appetibile era New York. E così, non senza un po’ di azzardo, il giovane ricercatore aveva scartato una borsa sicura puntando su un’altra al momento ipotetica. Gli era andata bene e così con la moglie incinta si era installato a New York.

La città era allora un posto assai vivace e poteva capitare di ritrovarsi una sera a teatro col Living e di assistere a inediti scambi di battute tra l’attore-regista Julien Beck tutto nudo in scena e una signora del pubblico in tailleur. La guerra alimentava poi la protesta, c’era chi bruciava pubblicamente in piazza la cartolina d’invio al fronte, qualcuno scappava in Canada. E poi c’erano anche i morti. In gennaio erano stati uccisi tre neri a Orangeburg, nella Carolina del sud. Poi il 1° aprile del ‘68, a Memphis nel Tennessee era stato ammazzato Martin Luther King.

Alla notizia dell’occupazione, in quell’aprile del ’68, la Columbia si riempie di studenti e si tiene  una grande assemblea di massa. L’atmosfera sta rapidamente incendiandosi.

“Avevo venticinque anni  – ricorda oggi Pugliese – ed ero subito entrato in contatto con i ragazzi della Student for Democratic Society, l’Sds, quelli della Columbia, insomma l’associazione studentesca radicale. Erano molto giovani, più giovani di me. L’età degli studenti andava dai 18 ai 23 anni. Erano in genere assai radicali. Tutto però era in quel momento molto alla buona, le forme di lotta erano non-violente, il capo era Mark Rudd, lo affiancavano Ted Gold e  Carolyn Duke”.

I dirigenti dell’Sds avevano fatto scalpore andando a Cuba dove si erano incontrati anche con dei vietnamiti. Altra radicale nota era Bernardine Dohrn sposata con Bill Ayers. Alcuni di loro sarebbero presto diventati dei Weathermen, il movimento clandestino di opposizione alla guerra che metteva bombe contro le centrali operative del conflitto come la Dow Chemical produttrice di napalm…

I Weathermen avrebbero preso il nome da una nota canzone di Bob Dylan, Subterranean Homesick Blues, che diceva “non hai bisogno di un meteorologo per sapere da che parte tira il vento”.

A tre giovani studenti ex Sds a entrati nella clandestinità sarebbe poi scoppiata nel marzo 1970 una bomba tra le mani mentre la stavano preparando in un appartamento del Grenwynch Village. Erano Diana Oughton dell’Sds del Michigan, Terry Robbins dell’Sds dell’Ohio e Ted Gold dell’Sds della Columbia. I Weathermen sarebbero stati poi sbaragliati dall’Fbi che si era messa alle loro calcagna subito dopo l’esplosione di alcuni ordigni contro obiettivi del sistema industriale-militare.  I giovani terroristi non colpivano persone ma cose. A far scalpore sarebbero stati i loro attentati alla centrale di polizia newyorchese, al Pentagono, alla sede del Dipartimento di Stato e al Campidoglio di Washington. Dopo il 1973 e gli accordi di pace col Vietnam qualcuno di loro continuò ad essere operativo per qualche tempo, tre superstiti mororanno nel 1981 durante una rapina. Brandelli di questa storia dimenticata sono stati raccontati da Robert Redford on “The Company you keep” (La regola del silenzio), un film del 2012.

Allora, nel 1968, Rudd è però il primo a pretendere una lotta non-violenta. Il creatore della striscia Donnesbury si è ispirato a lui per il personaggio di Martk Slackmeyer. Poco prima dell’occupazione era stato interrotta una commemorazione e una torta di meringhe  al limone era stata scaraventata in faccia a un funzionario del sistema Selective Service mentre faceva un discorso nel campus.

“In quella fase – ricorda Enrico Pugliese – la lotta era di massa e pubblica, non avrei mai pensato di occupare. Mi ci ritrovai dentro col mio amico Aubrey Brown, che era presidente della Columbia Sociology Student Society. Erano tempi così. L’occupazione fu abbastanza improvvisata. Ricordo che venne poi da noi Tom Hayden, che è morto poco tempo fas. Hayden, che era conosciuto allora come attivista a Newark, di lì a poco sarebbe diventato uno dei sette accusati di Chicago insieme a Jerry Rubin e Abbie Hoffman. Era critico nei confronti dell’occupazione, diceva  che bisognava organizzarsi un po’ meglio. Uno occupa, fa le sue richieste e così via…”.

In effetti è stato tutto molto rapido. Il 23 aprile centinaia di studenti si riuniscono presso la meridiana del campus della Columbia per protestare contro la guerra e la palestra, per poi dirigersi verso il Morningside Park. Lì viene buttata giù una recinzione e si verifica un primo attrito con la polizia. Altri studenti intanto si dirigono al padiglione Hamilton, sede degli studenti afro-americani, e ne occupano la hall impedendo a un funzionario di allontanarsi. Poi al grido di “Create two three many Columbias” si sono impossessati di altri cinque edifici del campus. I primi baluardi che cadono sono l’Administration e la Low Memorial Library con l’ufficio del presidente Grayson Kirk. Poi seguono Fayerwheather, Avery e la sede di matematica. Nel padiglione Hamilton intanto si sono asserragliati gli studenti di colore che si riconoscono nella Sas, la Student Afro-American Society.

Quelli del “radical caucus” sono intanto entrati nello studio del rettore Grayson Kirk e hanno  scoperte carte compromettenti. Ci sono molti documenti che mostrano i legami tra la scuola di politica internazionale della Columbia – la prestigiosa School of International Affaire – e la Cia.

Tom Hayden, uno dei fondatori dell’Sds, avrebbe poi constatato: “Una cosa è certa, gli studenti della Columbia non volevano più essere inclusi in centri di decisione del complesso militare-industriale che governa Columbia”.

“Io facevo base a Fayerweather Hall – spiega Pugliese -. C’era un clima di forte mobilitazione. Chiedevamo anche di vietare gli ingressi ai reclutatori per l’esercito e per la guerra. Ricordo che circolava la copertina della rivista “Ramparti” con quattro redattori che davano fuoco in pubblico alle loro cartoline precetto. Non era uno scherzo…”.

Per sei giorni i docenti cercano di mediare. Ma senza alcun risultato.

“Venne anche qualche grande intellettuale – aggiunge Pugliese -. Ricordo Erich Fromm che ci appoggiò esplicitamente. “L’anziano filosofo tenne un discorso nei giardini della Università agli studenti che avevano occupato (tutti in toga per la celebrazione della laurea, il ‘Commencement’), sottolineando la fine della silent generation.

Tiziano Terzani che era più grande di noi tifava anche lui per l’occupazione ma non partecipò. In quei giorni era suo ospite il padre, un comunista toscano,  che veniva invece ogni giorno a vedere cosa combinavamo. E di cose ne succedevano. Ci fu anche chi riuscì a sposarsi in quei sette giorni di occupazione, celebrò il rito il prete protestante Bill Star, fu una scena che poi è stata replicata nel film di Hagmann solo che non è avvenuta in California ma a New York”.

Il 30 aprile il rettore Kirk decide di farla finita e chiama la polizia di New York. In quei giorni la protesta si è peraltro estesa a oltre cento college americani, dalla Columbia è passato il leader nero Stokely Carmichael, in città la protesta per il Vietnam porta per le strade 200 mila manifestanti…

Così il 30 aprile la polizia arriva di fronte al campus.

“Io ero fuori dell’università, ero con Eugenio Somaini – spiega Pugliese-. Appena sapemmo che la polizia si era schierata davanti all’ingresso della Columbia  corremmo dentro, rientrammo…Se dovevano arrestare qualcuno c’eravamo anche noi…Il capo della polizia ci intimò di uscire. La risposta fu: “Bene, bravo, nudo…”. Allora irruppero e ci presero in massa, oltre 700. Una parte resistette all’arresto e fu manganellata. Gli studenti moderati che erano fuori della Columbia avevano cercato di ostacolare questi arresti.

Avevano gridato “Dovete passare sui nostri corpi”. La polizia aveva sequestrato le bandiere vietcong, quelle rosse con la stella gialla. Ricordo il professor Linz, un politologo, che al nostro passaggio piangeva. Ci caricarono su tanti pullman e ci portarono nella downtown di Manhattan.  New York registrò il passaggio di pullman pieni di giovani che lanciavano slogan. Eravamo diretti alla Court of Justice. Finimmo stipati in piccole celle della centrale di polizia, Aubrey aveva una radio nascosta negli slip. Ascoltavamo le notizie su di noi, poi dopo sedici ore di fermo fummo rimessi in libertà. Io ero preoccupato perché là fuori avevo una moglie incinta…Eppure mi ero fatto arrestare ad ogni costo”.

L’occupazione della Columbia, la prima, è finita, ma l’indignazione sta appena cominciando a salire. “In ultima analisi – conclude Pugliese – la repressione seguita a quell’ episodio fu piuttosto moderata, soprattutto se paragonata a quello che avvenne qualche anno dopo  con i morti a  Kent  State . A Columbia quasi tutti gli arrestati (720) furono rilasciati il giorno dopo. In pochi resistettero all’arresto e si presero una dura manganellata in testa.

Gli altri vollero essere arrestati: fu l’ultima grande dimostrazione di civil disobedience…”. Una seconda occupazione sarebbe scattata poco più avanti, stavolta alla testa ci sarebbe stata  una minoranza più radicalizzata. “Io però non ho partecipato – aggiunge Pugliese -, in quei giorni mi era nata una figlia…”.

A Morningside comunque la palestra non viene costruita e il contratto di ricerca militare viene interrotto.

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