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Home » Cultura

“Ci siamo traditi tutti”, un estratto dal libro di Maddalena Crepet

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Lui fa l’operatio alla Breda, a Milano, e lo chiamano Husky per via dei suoi strani occhi chiari. Lei è la figlia di una famiglia romana benestante, la bella e spregiudicata Costanza. Sono loro, due giovani usciti da Lotta Continua per partecipare alla fondazione di Prima Linea, i protagonisti del romanzo “Ci siamo traditi tutti” di Maddalena Crepet, ambientato nell’Italia degli anni di piombo, pubblicato da Solferino e uscito lo scorso 22 marzo. TPI ne pubblica un estratto:

Grida di protesta avevano iniziato a innalzarsi da piazza del Popolo. Centinaia di gole spiegate, migliaia di mani pronte a sorreggere striscioni, cartelli. Altre impegnate a nascondere nel pugno bombe carta, fumogeni. Nessuna, ancora, era armata. Camionette erano sparse in diversi punti, alcune in via del Corso, altre schierate come vedette all’ingresso del Pincio. Alcuni sbirri si erano già mischiati alla folla. Era una bella giornata di sole, un vento tiepido faceva ondeggiare gli striscioni come panni stesi. Costanza, stretta nel soprabito scuro, ne aveva afferrato uno, passando in pochi minuti alla testa del corteo che da piazza del Popolo si stava dirigendo verso Montecitorio. Gianni e Valeria, di lì a poco, avrebbero fatto altrettanto. Io, insieme a qualche decina di militanti, mi ero incamminato lungo via del Babuino.

Le vetrine delle boutique iniziavano a illuminarsi, dando sfoggio della loro opulenza. La contrapposizione fra noi e loro, la distanza che ci divideva, era tutta lì, racchiusa in quel budello di sampietrini: le vetrine scintillanti da una parte, i nostri eskimo dall’altra, i nostri pantaloni a zampa, le parrucche dei manichini, i nostri capelli lunghi e disordinati, le collane di zirconi, i nostri lobi forati, i tacchi alti, i nostri camperos che si muovevano veloci. Correvamo per raggiungere via del Tritone, prima che la polizia ci bloccasse. Alcuni di noi avevano ricevuto il compito di assaltare la sede del «Messaggero», ritenuto organo ufficiale della propaganda antiproletaria della capitale. Fra questi, c’ero anche io.

Non erano riusciti a fermarmi lungo il tragitto, ma lo avevano fatto poco dopo il nostro arrivo. Fra slogan che rispondevano al diktat «No al fermo di polizia / governo Andreotti ti spazzeremo via», «Fascisti / golpisti / per voi non c’è domani / siamo soldati, saremo partigiani», fra pugni battenti contro i cancelli, fra sprangate e vetri in frantumi, ero stato isolato da una carica proprio dietro la sede del giornale, ritrovandomi accerchiato da un manipolo di carabinieri.

Dalla camionetta in cui ero stato costretto a salire, avevo osservato – quasi fossi improvvisamente alieno a quei fatti – la manifestazione che infuriava per le strade del centro; un fiume di teste e di caschi aveva straripato, inondando l’area attorno a piazza Colonna. Mentre ascoltavo distrattamente il chiacchiericcio dei due sbirri nei sedili davanti, avevo posato lo sguardo su un gruppetto di cinque giovani manifestanti, i volti camuffati da specie di passamontagna, intenti a lanciare bombe carta in direzione di una pattuglia. Era stata questione di pochi attimi, ed erano stati raggiunti da tre celerini. Quattro erano riusciti a darsela a gambe, mischiandosi alla folla; un ultimo, un ragazzetto filiforme lungo come un insetto stecco, era stato bloccato e costretto faccia a terra da due dei tre agenti. Rialzatosi ammanettato dall’asfalto, aveva cercato di trattenere con una spalla alcune gocce di sangue che gli colavano dal mento scoperto.

Avevo provato scioccamente ad avvistare, in quell’unico blocco umano avvolto dal fumo dei lacrimogeni, la testa bionda di Costanza, quella riccia di Valeria, il viso rabbioso di Gianni, ma erano stati tutti tentativi andati a vuoto. Voltandomi, avevo visto che lo sbirro accanto a me, il volto foruncoloso di chi ha da poco passato la maggiore età, era impegnato a fare le parole crociate. Sentendosi il mio sguardo addosso, ma continuando a fissare i quadretti bianchi e neri, aveva detto, con lo stesso tono placido con cui poco prima mi aveva intimato di fermarmi, «Trentuno orizzontale: lo è chi prende tempo», le labbra sottili si erano increspate in una smorfia interrogativa, accompagnandosi alla fronte corrugata, «quindici lettere… la terza è una M… finisce con “re”… mi dai una mano, scugnizz’?», gli occhi di un marrone insignificante erano caduti sulle manette che avevo ai polsi. «Si fa per dire!», la risata metallica aveva riempito l’abitacolo, sovrastando anche le voci del conducente e dell’altro carabiniere. «Temporeggiatore» avevo risposto subito. «t-e-mp-o-r-e-g-g-i-a-t-o-r-e, quindici lettere! E bravo il nostro scugnizz’!» La biro che impugnava con la mano sinistra aveva oscillato nell’aria. «Uno dei pochi mancini a non essere stato corretto, manco alla scuola militare m’hanno cercato di far usare la destra, poi dicono che i militari sono troppo rigidi, non è vero Capacciò?» il tono, alzatosi nel tentativo di farsi ascoltare dagli altri due, era diventato piuttosto stridulo, come se la gola si fosse stretta in una morsa. «Brava gente siamo!» aveva replicato il Capacciò, le mani nodose – l’unica cosa di lui che distinguevo, insieme alle spalle – ben ancorate al volante.

Arrivati in prossimità della caserma di via Cesare Battisti, ero stato scortato dallo sbirro foruncoloso e dal Capacciò, il terzo uomo ci aveva fatto strada, entrando nell’edificio. Ero stato fatto sedere in uno degli uffici, insieme a qualche decina di altri ragazzi, acciuffati come me durante l’assalto. Una foto di Saragat bordata d’oro era l’unico ornamento sulla parete grigio cenere. Il ragazzo che mi sedeva accanto agitava la gamba sinistra, incrociata sulla destra, nell’aria viziata; si passava ripetutamente una mano sulla fronte, grattandosela fino a farla diventare rossa, un’unica macchia paonazza sul volto itterico. Lo sguardo spaurito, reso ancora più tragico dalla palpebra calata all’ingiù a mo’ di basset hound, aveva accompagnato ogni mio gesto. Avrà avuto diciotto anni, venti al massimo. Questi ce corcano, ce corcano peggio che pe’ strada…», la gamba continuava a muoversi a piccoli scatti, come se stesse calciando un pallone invisibile. Gli occhi ora fissavano la foto del presidente. «E chi glielo dice mo’ a mi’ padre, quello me fa fini’ in collegio, mica cazzi.»

Un altro ragazzo, all’apparenza poco più che ventenne, se ne stava a gambe larghe, seduto accanto all’esagitato. Fumava una Muratti, stretta fra le dita della mano destra; con la sinistra continuava a lisciarsi i jeans; aveva il risvolto sul fondo dei pantaloni, che lasciavano scoperte le caviglie sottili, femminili. I capelli ricci erano ben curati, tagliati di fresco.

“Te pensavi che ce cantavano uno stornello, Giacomì? So’ fasci… fasci, Giacomì.» Aveva schiacciato la sigaretta sotto la suola degli stivali bassi, di cuoio lucidato. Mi aveva guardato di sottecchi. Aveva il giusto grado di strafottenza che gli avrebbe garantito più mazzate di tutti; sembrava non curarsene. La pavidità e l’arroganza, in fondo, non erano altro che due facce della stessa medaglia, due diverse letture dello stesso testo che stavamo tutti contribuendo a scrivere. Mi aveva detto come si chiamava, il mento appuntito aveva seguito le parole, accennando un saluto. Rodolfo Calamandrei. Avrei sentito parlare a lungo di lui. Dell’altro, del Giacomino tremante che temeva le vessazioni paterne, mi sarei dimenticato in fretta. Il confine fra il bene e il male, fra il giusto e lo sbagliato, in quel giro di anni balordi, era tanto labile da essere spesso, ai nostri occhi affamati, impercettibile.

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