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Tu sei troppo vecchia e tu troppo giovane: cos’è l’ageismo di genere

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Non solo le maggiori difficoltà a trovare un’occupazione e le differenze di stipendio rispetto agli uomini. Molte donne sono discriminate sul lavoro anche a causa della loro età

Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), nel 2021, il 13,4% degli occupati in Italia ha dichiarato di aver subito discriminazione sul lavoro negli ultimi 5 anni. (Fonte: https://www.istat.it/it/archivio/276107). Purtroppo, il primato in termini di discriminazione spetta alle donne, che in ambito lavorativo incontrano più di un problema: la disoccupazione femminile rappresenta 11,1% rispetto al 9.6% di quella maschile, il tasso di totale inattività femminile si aggira intorno al 46,3% mentre quello maschile si attesta al 27.6 % e il tasso di occupazione femminile è del 47,7%, cambia con l’età e diminuisce in base al numero di figli. (Fonte: Global report on aging OMS 2021). Insomma, non importa quanto tu sia preparata, quanta esperienza tu abbia, quanto sacrificio, tempo e risorse personali tu abbia investito. Tu, donna, non andrai (quasi) mai bene per il mondo del lavoro. Ruoli manageriali? Nemmeno a parlarne. È giovane? È inesperta. È madre? Troppo impegnata con i figli. Si avvicina alla “mezza età”? Ha superato il suo apice.

S&D

Quando le donne hanno un lavoro, le loro retribuzioni sono inferiori rispetto a quelle degli uomini a parità di mansione. In Italia la differenza di retribuzione fra uomini e donne si aggira intorno al 18% e nel “Global Gender Gap Report del 2020”, l’Italia è al 76° posto per la parità salariale e ha perso 6 posizioni rispetto al 2010.

Molto spesso i lavori svolti dalle donne sono saltuari o con contratti non continuativi, la loro carriera lavorativa presenta spesso dei momenti di inattività per maternità o per il volontario abbandono del lavoro (vista la ridotta retribuzione) per occuparsi dei familiari. Anche la percentuale di occupazione part-time sulla occupazione totale è nettamente superiore rispetto a quella maschile: nel 2021 l’occupazione part-time femminile, come percentuale dell’occupazione totale, è stata del 31,5% contro l’8,4% di quella maschile.

Con l’avanzare dell’età le donne incontrano sempre maggiore difficoltà a essere occupate. Nel 2020 il 32% delle donne over 45 era impegnato attivamente nella ricerca di un lavoro. Tutto questo ha un nome: ageismo di genere (o age shaming). Vi suona nuovo? Purtroppo è solo l’ennesima forma di discriminazione che colpisce tutta la popolazione, ma che sul genere femminile ha un’incidenza maggiore. Il termine è stato coniato nel 1969 dal geriatra Robert Butler per assonanza e analogia con razzismo e sessismo e indica la discriminazione o il pregiudizio della società moderna verso le persone anziane. A livello globale, la popolazione di over 65 anni sta crescendo più rapidamente di tutte le altre fasce d’età, affermano le Nazioni Unite. Nel caso dell’Europa, in media il 20,3% della popolazione ha più di 65 anni, e l’Italia in testa con una media del 22,8%. Un Paese per vecchi quindi, usando l’ormai lisa meta-citazione, anzi un mondo, dove il problema dell’ageismo sul luogo di lavoro comincia a farsi strada. Le statistiche dell’ente di beneficenza Age UK mostrano che l’ageismo è il tipo di discriminazione più comune in Europa e che sono le donne a sopportarne il peso maggiore.

A illustrarci questo fenomeno, che di nuovo ha solo la denominazione, è Silvia Vianello. Inserita da Forbes tra le 100 donne italiane più influenti al mondo, Silvia Vianello è Financial Coach, ha lavorato per grandi aziende come Maserati, insegnato in Bocconi a Milano, e condotto programmi televisivi. Ha vissuto in più parti del mondo, da Parigi, Houston e New York, per poi stabilirsi negli Emirati Arabi. Ed è da lì che ci ha fornito alcune informazioni preziose. «Secondo un’indagine condotta a livello europeo da PageGroup su un campione di circa 5.000 intervistati, il 51% ha dichiarato di aver subìto discriminazioni sul posto di lavoro una o più volte negli ultimi 12 mesi. Uno su sei (il 18%), inoltre, ritiene di essere discriminato “spesso” o “sempre”, mentre il 33% subisce episodi occasionali. I motivi? L’età è risultata la causa più comune di discriminazione (34%), seguita dal genere (23%) e dal background culturale (22%). Un fattore, quest’ultimo, poco citato nel dibattito collettivo e dai media, ma che ben esiste e resiste nel tempo. Va da sé che, le persone con più di una caratteristica oggetto di discriminazione siano ulteriormente penalizzate (la donna senior proveniente da un ceto sociale basso, l’over 50 con radici straniere e così via). Inoltre, con l’aumento dell’anzianità, e del relativo ageismo, aumenta anche la prevalenza della discriminazione di genere. Il 31% dei dipendenti in posizioni di leadership dichiara di subirla, rispetto al 21% dei lavoratori di livello non dirigenziale. Non solo: 4 lavoratori su 10 di età superiore ai 50 anni (il 41% per la precisione) hanno dichiarato di essere stati discriminati in base all’età negli ultimi 12 mesi».

«È importante sottolineare – prosegue Vianello – che la discriminazione sul posto di lavoro basata sull’età è illegale in molti paesi». I settori maggiormente interessati vanno da quello tecnologico alla pubblica amministrazione: «Il settore tecnologico è spesso considerato un ambiente giovane e dinamico, e questo può portare a discriminazioni contro i lavoratori più anziani. I datori di lavoro potrebbero erroneamente ritenere che i lavoratori più anziani non siano in grado di adattarsi alle nuove tecnologie o di apprendere nuove competenze. Inoltre, il settore tecnologico è spesso caratterizzato da una cultura del “lavoro duro”, che può essere sfavorevole per i lavoratori più anziani che potrebbero avere esigenze diverse, come orari di lavoro flessibili o congedi per motivi familiari».

Ma anche nel mondo della finanza le cose non vanno meglio: «Il settore finanziario è un altro settore in cui la discriminazione basata sull’età è diffusa. I datori di lavoro potrebbero erroneamente ritenere che i lavoratori più anziani siano meno propensi a correre rischi o ad essere innovativi. Nella pubblica amministrazione, altresì, la discriminazione basata sull’età può essere sottile ma pervasiva. I datori di lavoro potrebbero erroneamente ritenere che i lavoratori più anziani siano meno efficienti o produttivi».

Purtroppo, oltre i dati, è l’esperienza quella che prova lo stato delle cose. Come racconta Vianello: «Dopo anni come career coach e mentor per i migliaia di studenti MBA ed EMBA che ho avuto in tutto il mondo, posso dire di averne viste davvero di tutti i colori. Senza dubbio il periodo peggiore è stato il 2020, quando le aziende non si sono davvero fatte scrupoli. Per questo motivo ho lanciato in quel periodo programmi di formazione nel mondo dell’educazione finanziaria, in modo tale da rendere le persone sempre più finanziariamente indipendenti e meno succubi di capi intolleranti e di aziende senza scrupoli che discriminano per sesso e per età senza guardare in faccia a nessuno».

L’ageismo di genere, però, non riguarda solo le persone con un’età “avanzata”, ma anche quelle “troppo giovani”. In teoria la legge dovrebbe impedire che accada. La Carta Sociale Europea Riveduta stilata dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS), all’art. 20 sancisce il diritto alla parità di opportunità e di eguale trattamento nell’accesso al lavoro, nelle condizioni di impiego e di lavoro, compresa la retribuzione e le promozioni. Tradotto: che tu sia uomo o donna, ventenne o sessantenne, non dovrebbe cambiare nulla. La realtà, proprio perché questa norma non sempre viene recepita, ci sono mille variabili personali e le conseguenze sociali del patriarcato, è molto diversa e il divario è tangibile. Per dirne una: anche se dopo il diploma o la laurea riesci a trovare lavoro, entro i 35 anni (età media in cui in Italia le donne fanno il primo figlio) hai grandi possibilità di perderlo: la maggior parte delle dimissioni volontarie sono da parte di donne impossibilitate a conciliare gli impegni lavorativi con quelli famigliari, i dati più recenti rilevati dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro dicono che si tratta del 73%. L’age shaming, insomma, sembra poter colpire proprio tutti e sempre prima. Perché la soglia anagrafica si abbassa di continuo, soprattutto in un periodo di crisi come questo.

Vianello illustra quello che accade per donne considerate troppo giovani o troppo vecchie: «Le donne troppo giovani possono essere considerate inesperte, immature o non affidabili. Possono avere difficoltà a trovare un lavoro o a ottenere promozioni e possono essere soggette a molestie sessuali o a commenti discriminatori. Per fare qualche esempio, una giovane donna che si candida per un lavoro manageriale potrebbe essere considerata troppo giovane e inesperta per il ruolo. Ancora, una giovane donna che viene assunta in un ruolo di responsabilità potrebbe essere sottoposta a un maggiore controllo e supervisione rispetto ai suoi colleghi maschi. E infine, una giovane donna che fa carriera potrebbe essere vista come una “minaccia” dai suoi colleghi maschi e potrebbe essere esclusa da opportunità di networking o di avanzamento».

Per quanto riguarda le donne considerate troppo vecchie: «Possono essere considerate obsolete, fuori moda o non in grado di stare al passo con le nuove tecnologie. Le donne in età fertile possono essere discriminate a causa del timore che prendano congedo per maternità. Possono essere licenziate o prepensionate a causa della loro età. Per citare qualche esempio, una donna over 50 che si candida per un lavoro potrebbe essere considerata troppo vecchia per il ruolo. Una donna over 50 che viene assunta in un ruolo di responsabilità potrebbe essere vista come meno energica o dinamica rispetto ai suoi colleghi più giovani. Una donna over 50 che fa carriera potrebbe essere esclusa da opportunità di formazione o di avanzamento perché considerata “vicino alla pensione”».

Dall’approfondita analisi di Vianello si evince che l’Italia è indietro rispetto ad altri paesi europei in termini di lotta contro la discriminazione di genere e di età. Tuttavia, ci sono alcuni aspetti positivi e ci sono diverse iniziative in atto per migliorare la situazione. «Esistono diverse aziende virtuose in Italia che si impegnano a contrastare la discriminazione di genere e di età», afferma l’esperta.

«Accenture ha un programma di mentoring chiamato “Women in Leadership” che offre alle donne supporto e formazione per aiutarle a raggiungere ruoli di leadership. Google ha una politica di parità di retribuzione per uomini e donne e si impegna a raggiungere la parità di genere in tutti i suoi livelli di leadership. IBM ha un programma di prepensionamento flessibile chiamato “IBM Retiree Choice” che consente ai lavoratori più anziani di scegliere quando andare in pensione. Queste aziende hanno adottato diverse misure per promuovere la diversità e l’inclusione sul posto di lavoro, tra cui: politiche di parità di genere e di non discriminazione; programmi di formazione per i dipendenti sulla diversità e l’inclusione; misure per la conciliazione vita-lavoro, programmi di mentoring e sponsorship per le donne e i lavoratori più anziani».

Una soluzione al problema dell’age shaming potrebbe venire dal blind recruitment, ossia dalla selezione “al buio”, noto anche come reclutamento anonimo. «È una pratica di selezione in cui le informazioni identificative di un candidato, come nome, sesso, età, scuola o luogo di residenza, vengono rimosse dal materiale di candidatura durante le fasi iniziali del processo di selezione. Questo mira a ridurre i pregiudizi inconsci tra i recruiter e i responsabili delle assunzioni, consentendo loro di concentrarsi esclusivamente sulle competenze, l’esperienza e le qualifiche del candidato». Il funzionamento prevede l’anonimizzazione delle candidature: i recruiter o personale dedicato anonimizzano curriculum e lettere di presentazione rimuovendo tutte le informazioni identificative; la selezione basata su competenze ed esperienza: i responsabili delle assunzioni esaminano il materiale anonimo e preselezionano i candidati in base alle loro qualifiche e all’allineamento con i requisiti del lavoro. La valutazione con informazioni identificative: solo dopo aver selezionato i candidati più qualificati in base al materiale anonimo della domanda, vengono rivelate le loro informazioni identificative. Ciò consente una valutazione ulteriore, inclusi i colloqui, dove può essere effettuata una valutazione olistica.

Esiste un tema di convivenza tra generazioni differenti di lavoratori: si tratta di un aspetto che le aziende dovranno sempre più gestire e monitorare. Spostare l’attenzione sulle competenze e non sulle persone è il primo passo per un vero cambiamento in una società che non può continuare a fingere di non vedere le donne.

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