Fuori le Mura: così Roma rinasce dal basso grazie all’attivismo sociale e alle sue periferie
Non solo grandi opere: la ripresa della Capitale passa anche dai quartieri popolari e dai centri sociali. Tra lotta contro degrado, microcriminalità e sgomberi, cresce un’altra idea di convivenza urbana. Con al centro le persone
Mentre l’attenzione pubblica si concentra sui cantieri del Giubileo e sulle grandi promesse infrastrutturali, c’è un’altra Roma che prova a rinascere lontano dal centro storico. È la Roma delle periferie e dei margini, dove associazioni, cooperative, centri culturali e spazi rigenerati stanno costruendo quotidianamente nuove forme di socialità. A Tor Bella Monaca come a Corviale, da San Basilio al Tuscolano fino all’Esquilino, giovani, volontari e cittadini organizzati stanno trasformando luoghi segnati dal degrado in laboratori di cultura, sport e solidarietà. Una rinascita dal basso che spesso non fa notizia, ma che restituisce energia a una città abituata a convivere con le sue ferite.
Laboratori di comunità
Per decenni le periferie romane sono state raccontate come luoghi di degrado, simboli di promesse mancate e urbanistica fallita. Corviale, il “Serpentone” lungo un chilometro, doveva essere un quartiere modello ed è diventato un ghetto. Tor Bella Monaca è stata sinonimo di edilizia popolare abbandonata, con tassi altissimi di dispersione scolastica e criminalità. San Basilio è entrato nelle cronache più per gli scontri con la polizia e i problemi abitativi che per la vita dei suoi abitanti. Erano periferie percepite come “altro”: lontane, invisibili, destinate al degrado.
Oggi, in quegli stessi luoghi, germogliano esperienze che raccontano una Roma diversa. A Corviale i murales e i laboratori artistici provano a trasformare il “mostro” in un centro di creatività. A Tor Bella Monaca nascono biblioteche di strada, scuole popolari e progetti sportivi che offrono alternative ai ragazzi. A San Basilio, comitati e cooperative hanno aperto spazi di aggregazione, cucine sociali e centri per i giovani. Non si tratta di miracoli isolati, ma di una rete diffusa che resiste alla marginalità con la forza della comunità.
La sfida del “Serpentone”
Un esempio emblematico è quello di Pino Galeota, da decenni impegnato a Corviale. Negli anni Novanta viene eletto consigliere comunale quasi per caso, dopo le battaglie sociali condotte con don Luigi Milani. «Mi hanno messo in lista senza che io lo volessi, non sapevo nemmeno cosa dovessi fare», racconta. Da allora decide di dedicarsi al quartiere e alle periferie, fondando l’associazione Corviale Domani.
Tra le iniziative più significative, una ricerca di oltre 500 pagine condotta nel 2008: «Non avevano mai fatto un’indagine sul territorio: io l’ho fatta, ed è stata la base per ripartire». Negli anni successivi partecipa a battaglie politiche e sociali, fino a ottenere finanziamenti importanti per la riqualificazione del quartiere. L’intervento più rilevante riguarda proprio il “serpentone”, al centro di un piano di ristrutturazione legato ai Piani Integrati Urbani e al Giubileo 2026.
«I fondi sono consistenti – circa 146 milioni di euro – ma entro giugno 2026 tutto deve essere completato, altrimenti i soldi vanno persi. Non possiamo permettercelo», avverte Galeota, che denuncia anche la lentezza burocratica legata al fatto che il palazzo appartiene alla Regione Lazio e non al Comune. Sul fronte sicurezza resta la criticità: «Corviale soffre ancora di microcriminalità e spaccio, ma non esiste una presenza mafiosa strutturata. Qui tutti conoscono tutti: mettere in sicurezza sarebbe facile, manca una gestione continuativa delle istituzioni. Se il quartiere ha resistito è grazie alla comunità. Per vent’anni lo abbiamo presidiato: senza questo lavoro avrebbe fatto la fine di altri quartieri».Per Galeota la sfida è chiara: «Le periferie non sono entità separate, ma parte integrante della capitale, capaci di diventare motori di rinascita se sostenute. Nessuno è profeta in patria, ma noi vogliamo che questa partita si chiuda, che i lavori finiscano. Solo così le periferie potranno essere un modello e non un problema».
Presidio di Tor Bella Monaca
Un racconto simile arriva da Tiziana Ronzio, presidente dell’associazione Tor Più Bella. «A Roma spesso si racconta solo il centro, ma la rinascita parte anche dalle periferie. Quando la città era descritta come un grande cantiere abbandonato, qui non ci siamo mai fermati. L’associazionismo funziona: ognuno, nel suo piccolo, fa qualcosa. Ed è fondamentale perché impedisce che nascano zone d’ombra dove la criminalità può inserirsi. Tor Bella Monaca, San Basilio, Corviale non sono mondi a parte: sono pezzi della città, e quando un quartiere funziona, funziona tutta Roma».
Negli ultimi mesi il quartiere ha visto aprirsi nuovi cantieri: «Hanno cominciato con le torri di Santa Rita, che stanno vivendo una piccola rivoluzione. È un progetto pilota: se funziona, potrà estendersi a tutto il complesso. Per i cittadini è una garanzia di sicurezza: quando una torre viene recuperata, anche le altre cominciano a funzionare». Il Giubileo, dice Ronzio, «ha messo in moto una macchina fondamentale. Roma accoglie pellegrini da tutto il mondo e il municipio è molto presente. Non è sempre stato così: in passato non c’era attenzione, oggi invece si affrontano di petto problemi seri come lo spaccio».
La questione sicurezza resta però un nervo scoperto: «Qui la microcriminalità si serve di una manovalanza straniera ingestibile. Non è razzismo, ma una realtà che viviamo ogni giorno. Occupano cantine, cabine elettriche, terrazze: dove trovano spazio, si sistemano. Intorno a queste occupazioni ci sono spaccio, prostituzione, violenze. Ogni giorno rischi di vedere una coltellata». Nonostante ciò, il quartiere non si arrende: «Noi siamo i primi a firmare quando c’è un problema. Col tempo la gente ci ha riconosciuto come punto di riferimento. Un cantiere si apre e si chiude, ma a vigilare e a vivere i luoghi restiamo noi. È importante coinvolgere la comunità, far sentire la gente parte di quello che cambia. Noi siamo un po’ come quei vecchietti che guardano i cantieri: occhi che controllano continuamente. Ma è questo sguardo che fa la differenza».
Centro resistente
All’Esquilino, in pieno centro storico, il palazzo occupato di Spin Time Labs è diventato uno dei motori del polo civico, laboratorio di pratiche sociali che riunisce oltre quaranta realtà del territorio. «Ci sentiamo un po’ una periferia che è riuscita a conquistarsi un pezzo di città», racconta Federico Di Costanzo. «Spin Time è tra i fondatori del polo civico dell’Esquilino, oggi parte di una rete in espansione: undici poli già formalizzati, altri in costruzione. L’idea è che il terzo settore e i movimenti possano trovare un linguaggio comune e incidere sulla governance in modo più orizzontale e partecipativo».
Un esempio è il lavoro su piazza Pepe, dietro piazza Vittorio: «Il Comune aveva scelto la via più facile, cancellate e sgomberi», spiega Di Costanzo. «Noi ci siamo opposti: non si risponde all’emergenza sociale spostandola altrove. Insieme al Municipio II e ad altre associazioni abbiamo aperto un centro di accoglienza per una ventina di migranti. Quelle stesse persone, viste come un problema, ora sono in prima fila a ripulire e rendere vivibile lo spazio. È la prova che l’inclusione è la soluzione, non l’esclusione».
Paolo Perrini sottolinea come questo approccio abbia costretto le istituzioni a cambiare: «Quando il sindaco ha recintato viale Pretoriano per allontanare chi dormiva lì, siamo intervenuti. Abbiamo detto che era un errore. Alla fine il Comune è stato costretto a convocare il polo civico e a trovare una soluzione insieme. È questo il metodo: affrontare le emergenze, non nasconderle dietro un muro».
Ma lo stesso Spin Time vive sotto la minaccia di sgombero. «È paradossale», osserva Di Costanzo, «che chi accoglie e costruisce comunità venga trattato come un problema di ordine pubblico. Siamo attenzionati solo perché salviamo persone che altrimenti finirebbero in strada. È il sintomo di un sistema che preferisce muri e repressione all’inclusione». Il Giubileo, aggiunge Perrini, è un banco di prova: «Per noi ha senso solo se mette al centro le persone, non solo il decoro. Non ci interessa una città tirata a lucido per i pellegrini: serve affrontare le fragilità sociali, altrimenti il rischio è che diventi l’ennesima occasione mancata». Un nodo cruciale resta la rigenerazione urbana: «Sempre più spazi pubblici abbandonati vengono trasformati in studentati di lusso o strutture per pochi privilegiati», denuncia Perrini. «È successo all’ex Dogana, a San Lorenzo e in altre zone. Ma questa non è rigenerazione, è privatizzazione. La vera rigenerazione deve passare dall’uso collettivo dei beni comuni, dall’accessibilità, dalla partecipazione. Noi restiamo un presidio per vigilare e dimostrare che un altro modello di città è possibile».
Nuova identità
Il confronto tra ieri e oggi mostra una Roma che non rinasce solo attraverso i grandi cantieri del Giubileo, ma grazie a una rete invisibile che ricuce il tessuto sociale. Se negli anni Ottanta e Novanta le periferie erano percepite come un “buco nero”, oggi, pur tra mille difficoltà, sono viste sempre più come laboratori di sperimentazione sociale e culturale. È una rinascita fragile, fatta di presidi quotidiani, di associazioni e comunità che scelgono la via della partecipazione. Una città che prova a reinventarsi partendo dai margini – e che proprio dai margini può ridisegnare la sua identità.