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Paracetamolo, plasma iperimmune, anticorpi monoclonali: le risposte ai dubbi sulle terapie anti-Covid

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Nell’ultima puntata della rubrica “Parole chiare in medicina” abbiamo fatto il punto sulle terapie anti Covid 19 che sono ad oggi indicate nei pazienti non ricoverati in Ospedale. Riassumendo quanto detto: ad oggi le linee guida raccomandano 1) paracetamolo o FANS per la malattia sintomatica lieve gestibile a domicilio e 2) anticorpi monoclonali (finora in Italia ne sono stati approvati tre) in casi selezionati (pazienti con fattori di rischio di andare incontro ad una forma grave di malattia). Con una precisazione: mentre i FANS o il paracetamolo possono essere assunti a casa comodamente dal paziente, gli anticorpi monoclonali possono essere somministrati solo in regime ambulatoriale sotto stretto controllo medico. E mentre i FANS e il paracetamolo costano pochissimo e sono universalmente disponibili, gli anticorpi monoclonali sono molto costosi e non sono disponibili per tutti. All’infuori di queste categorie di farmaci, non abbiamo ad oggi nessuna medicina che alla prova dei fatti è risultata oltre ogni ragionevole dubbio utile nei pazienti non ospedalizzati affetti da Covid 19 tanto da essere raccomandata dalle attuali linee guida.

Dopo questo articolo mi sono state poste diverse domande, a cui penso sia utile dare una risposta pubblica a beneficio di tutti i lettori. Con l’occasione risponderò anche ad alcuni dubbi che seppure non formulati direttamente a me circolano spesso in rete e rispetto ai quali urge, a mio parere, fare chiarezza.

  • Da più parti ho sentito dire che i FANS sono molto meglio del paracetamolo. Perché il mio medico quando mi sono ammalato di Covid mi ha dato il paracetamolo? Se mi avesse dato i FANS sarei guarito prima, giusto?” Ecco, nonostante già nella precedente puntata della rubrica avessimo affrontato l’argomento paracetamolo (meglio noto col nome commerciale di tachipirina) vs FANS (farmaci anti-infiammatori non steroidei), evidentemente non tutti i dubbi sono stati fugati, quindi è necessario fare alcune ulteriori precisazioni. Come già accennato nel precedente articolo, non esistono grandi trial randomizzati controllati (del tipo di quelli che hanno dimostrato l’efficacia dei vaccini per intenderci) paracetamolo contro FANS per la cura di Covid 19, quindi certezze in merito non ne abbiamo. Esistono solo degli studi, per lo più retrospettivi e di non eccelsa qualità, pubblicati in massima parte su riviste scientifiche minori e che hanno dato peraltro esiti contrastanti. Ad esempio, uno studio osservazionale retrospettivo coreano pubblicato su Scientific Reports che ha confrontato 398 pazienti trattati con FANS rispetto a 2398 soggetti curati con paracetamolo entro due settimane dalla diagnosi di COVID(https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7930278/pdf/41598_2021_Article_84539.pdf) ha individuato una sostanziale equivalenza tra le due classi di farmaci (paracetamolo e FANS) rispetto ai parametri di mortalità e di necessità di ventilazione meccanica e in generale sul piano della sicurezza. D’altro canto, un piccolo studio italiano (spesso citato impropriamente dal fronte no vax), pubblicato su E-clinical Medicine, condotto dal gruppo del Professor Remuzzi su un totale di soli 180 pazienti (90 nel gruppo sperimentale e 90 nel gruppo di controllo) sempre di tipo osservazionale retrospettivo, ha effettivamente individuato una riduzione significativa nel tasso di ospedalizzazione nel gruppo trattato secondo il protocollo a base di farmaci antiinfiammatori non steroidei (nello specifico celocoxib e nimesulide o, se questi farmaci risultavano controindicati o non tollerati,  aspirina, da somministrare il prima possibile, anche prima di avere il risultato del tampone per Sars Cov 2) rispetto al gruppo di controllo trattato con terapia standard (per lo più paracetamolo) (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8189543/pdf/main.pdf). In particolare, da questo studio è emerso che 2 pazienti su 90 nel gruppo sperimentale e 13 su 90 nel gruppo di controllo erano stati ospedalizzati, per un’efficacia del protocollo sperimentale vicina al 90 per cento nel ridurre il tasso di ospedalizzazione. D’altra parte, e in modo quasi paradossale e non facile da spiegare, lo studio ha completamente fallito l’obiettivo primario (cioè il più importante), che non era la riduzione del tasso di ospedalizzazione, ma la riduzione della durata di malattia: infatti, nel gruppo sperimentale (quello dei FANS), i sintomi maggiori sono scomparsi mediamente nell’arco di 18 giorni, mentre nel gruppo di controllo (quello del paracetamolo per intenderci) in 14 giorni, quindi in un tempo significativamente minore (detto più semplicemente: secondo questo studio, i sintomi sparivano prima se veniva usato il paracetamolo rispetto ai FANS).  Tenuto conto di tutto ciò – raggiungimento di un obiettivo secondario a fronte del fallimento dell’obiettivo primario, ad oggi nessuna conferma dei risultati in altri studi- considerare questo lavoro di ricerca italiano come la prova definitiva della superiorità dei FANS (o meglio di quei farmaci anti-infiammatori previsti dal protocollo) rispetto al paracetamolo è assolutamente sbagliato. Gli stessi Autori nelle conclusioni riconoscono che il loro studio potrebbe al più rappresentare una base per mettere a punto trial di comparazione tra il loro protocollo a base di FANS e quello tradizionale e che, considerati i limiti del disegno sperimentale del loro studio, “additional research would be required to consolidate the proposed treatmemt reccomandations” (traduzione: ulteriore ricerca sarebbe richiesta per consolidare le proposte raccomandazioni di trattamento). Insomma, quello che ad oggi possiamo senz’altro dire è che, sulla base delle evidenze disponibili, i FANS nel trattamento della malattia Covid 19 sono sicuri e, in termini generali, non risultano più pericolosi del paracetamolo (come era stato ipotizzato da alcuni esperti all’inizio dell’epidemia) ma che siano associati ad un’efficacia maggiore resta un aspetto assolutamente controverso e tutt’altro che definitivamente appurato. Parzialmente diverso è il discorso sull’aspirina, che è l’unico farmaco tra i FANS che nella pratica clinica, oltre che come antiinfiammatorio, viene sfruttato anche per le sue capacità anti trombotiche, in particolari anti-aggreganti. In questo caso, il livello di evidenza di una sua possibile utilità nelle fasi precoci di malattia e soprattutto nei casi in cui venga utilizzata in profilassi per patologie trombotiche è maggiore rispetto a quello disponibile per ciascuno degli altri FANS essendo supportato da studi di grandi dimensioni ancorché ancora una volta solo retrospettivi; d’altro canto però va ribadito che neanche per l’aspirina, mancando grandi trial randomizzati, abbiamo ad oggi certezze granitiche di una sua superiorità rispetto al paracetamolo. Quindi, riassumendo: dire “ad oggi sembra ragionevole continuare la ricerca sull’aspirina per la terapia precoce del Covid 19, perché i dati preliminari a disposizione supportano l’ipotesi di una sua utilità” è un’affermazione assolutamente sensata e che è ritenuta condivisibile da molti esperti (per quel che vale, anche dal sottoscritto); dire invece “l’aspirina è sicuramente più efficace del paracetamolo” è assolutamente sbagliato, perché mancano appunto grandi trial prospettici di comparazione tra i due farmaci (e potrebbe benissimo darsi che un trial ben disegnato smentisca quello che al momento, sulla base di considerazioni fisiopatologiche e di dati preliminari, pare un assunto ragionevole; in medicina, non sarebbe né la prima né l’ultima volta che accade: si pensi ad esempio al plasma iperimmune per la cura del COVID per cui il razionale a favore era forte ma i risultati poi sono stati globalmente negativi) . In ragione di ciò, ad oggi nessuna linea guida stabilisce chiaramente che l’aspirina sia la prima scelta e il paracetamolo una seconda scelta. Ne consegue che entrambe le opzioni sono, al momento, da considerarsi valide, il che significa che il medico curante allo stato attuale è pienamente legittimato in scienza e coscienza a scegliere l’una o l’altra opzione, tenendo conto in primo luogo delle caratteristiche cliniche dello specifico paziente che ha di fronte. Va da sé che se arriverà poi uno o (meglio) più trial a definire che uno dei due farmaci è nettamente superiore rispetto all’altro, a quel punto le linee guida saranno adeguate e tutti i medici ne dovranno prendere atto, per cui la discrezionalità di scelta del singolo medico a quel punto si ridurrà nettamente, ma fino ad allora non ha alcun senso puntare il dito contro il medico che oggi in modo totalmente legittimo prescrive il paracetamolo per i pazienti affetti da Covid 19. Spero con questo di aver chiarito la questione.

 

  • Ho sentito dire che il cortisone riduce la mortalità per COVID 19. Perché allora il mio medico quando mi sono ammalato di COVID non me lo ha prescritto?”. Anche qui si fa una grande confusione. Ci sono, è vero, delle evidenze sulla capacità dei farmaci corticosteroidei, in particolare, del desamatasone (che è un farmaco corticosteroideo ad alta potenza) di ridurre la mortalità per COVID 19 nei pazienti in ossigenoterapia, per cui in questo contesto sono indicati da tutte le principali linee guida nazionali ed internazionali (per approfondimenti, si legga la presente nota AIFA: https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1123276/Corticosteroidi_06.10.2020.pdf). Il discorso non si applica però per le forme lievi di malattia: in questo caso, né l’EMA (https://www.ema.europa.eu/en/news/ema-endorses-use-dexamethasone-covid-19-patients-oxygen-mechanical-ventilation) né l’OMS (https://www.who.int/publications/i/item/WHO-2019-nCoV-Corticosteroids-2020.1) infatti ne consigliano l’uso. Cioè, se sono a casa e il COVID mi sta dando solo un po’ di febbre ma respiro bene e la saturazione dell’emoglobina è costantemente sopra il 94 per cento, non c’è nessun motivo per imbottirsi di cortisonici. E questo per varie ragioni: a) nessuno ha dimostrato che in questo contesto usare i cortisonici aiuti; b) i cortisonici, soprattutto quelli ad alta potenza, possono dare diversi effetti collaterali anche gravi, come aumento imponente della pressione arteriosa o della glicemia o, in alcuni casi, severe alterazioni del tono dell’umore fino a quadri di psicosi conclamata; c) nelle fasi iniziali della malattia Covid 19, almeno ragionando dal punto di vista fisiopatologico, potrebbero essere persino controproducenti. Per capire quest’ultimo punto, dobbiamo fare una brevissima disamina di come funziona la malattia Covid 19. Semplificando molto, nel caso di un soggetto destinato a sviluppare una forma grave di malattia, possiamo dire che nella prima fase del Covid 19 a fare danno è soprattutto il virus stesso, mentre nella seconda più che il virus è la risposta infiammatoria abnorme (la famosa “tempesta citochinica”) che si viene a determinare a creare la gran parte dei problemi, fermo restando che il virus continua a fare danno sempre e che la risposta infiammatoria inizia subito, sin dalle fasi iniziali. In tutto ciò, oltre al danno virale e al danno infiammatorio, nel Covid 19 si va ad aggiungere spesso un meccanismo di danno pro-trombotico, che a sua volta è determinato dal combinato disposto dell’uno e dell’altro fattore (virus e infiammazione) (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7361355/pdf/JMV-9999-na.pdf). Chiarito questo, è evidente che almeno sul piano teorico è atteso che i farmaci diretti contro il virus, come gli anticorpi monoclonali anti Sars Cov 2, diano il massimo beneficio se somministrati precocemente, quando è il virus il protagonista, mentre ci si aspetta che funzionino meno bene nelle fasi tardive, quando il meccanismo di danno principale non è connesso al virus ma all’infiammazione. Per quanto riguarda i farmaci antiinfiammatori, dal momento che l’infiammazione è presente sin dall’esordio della malattia, essi, almeno a livello sintomatico, potrebbero dar sempre beneficio, anche nelle fasi iniziali, ed è per questo che alcuni farmaci anti-infiammatori di cui abbiamo già parlato, e cioè i FANS, vengono usati nella terapia precoce a domicilio. Ma quando parliamo di farmaci antiinfiammatori ad alta potenza e a rischio di effetti collaterali anche gravi (come i cortisonici con effetto sistemico) il loro profilo rischio/beneficio appare favorevole soprattutto nel contesto di uno stato iper-infiammatorio, come quello che si riscontra nelle fasi avanzate della malattia Covid 19 moderata-grave, mentre risulta molto meno favorevole nelle formi lievi di malattia gestibili a domicilio, dove gli effetti collaterali del farmaco potrebbero superare di gran lunga i benefici. Detto semplicemente: non ha senso sparare col cannone contro un passerotto, non solo perché per averla vinta sul passerotto basta molto meno ma   anche perché, usando il cannone, c’è il rischio di distruggere un palazzo posto vicino al passerotto. Nel caso specifico dei cortisonici, poi non va mai dimenticato che questi farmaci, a differenza ad esempio dei FANS, oltre all’effetto antiinfiammatorio, hanno anche un ben noto effetto immunosoppressivo, cioè indeboliscono le nostre difese immunitarie. Se questo è utile quando le difese immunitarie sono attivate in modo abnorme finendo per danneggiare l’organismo come nelle fasi avanzate di malattia Covid 19 moderata- grave, non solo non è utile ma potrebbe essere persino pericoloso quando ci troviamo nelle fasi iniziali di malattia, quando cioè il sistema immunitario è chiamato a dare il meglio di sé per distruggere il nemico, cioè il virus. Per tutte queste ragioni, allo stato attuale, non è assolutamente raccomandato somministrare cortisonici sistemici (indipendentemente dal fatto che vengano somministrati per bocca, intramuscolo o endovena) nelle formi lievi di malattia gestibili a domicilio. In questo specifico contesto, semmai può avere un razionale sperimentare cortisonici a bassa potenza con effetto locale e non sistemico, perché questi, differentemente da quelli ad alta potenza e con effetto sistemico, agendo solamente nel sito di somministrazione, spengono l’infiammazione locale ma non indeboliscono globalmente le difese immunitarie. Tra i farmaci con queste caratteristiche, ha attirato recentemente l’attenzione dei ricercatori una medicina chiamata budesonide, che è somministrabile appunto per via inalatoria. A questo proposito, un interessante trial pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet ha in effetti riscontrato la capacità della budesonide inalatoria, in aggiunta alla terapia standard, di ridurre in modo statisticamente significativo la durata di malattia (riduzione pari a circa 3 giorni) rispetto alla terapia standard da sola. Il gruppo trattato con il farmaco ha anche mostrato rispetto al gruppo di controllo un tasso di ospedalizzazione inferiore, ma in questo caso la differenza non ha raggiunto la significatività statistica, ovvero, semplificando molto, non può essere escluso che questa differenza sia dipesa dal caso(https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8354567/pdf/main.pdf). Ottimi risultati quindi che lasciano ben sperare, ma lo studio è relativamente piccolo e ha delle limitazioni. La limitazione più importante è legata al fatto che il gruppo sperimentale era costituto da soggetti trattati da terapia standard + budesonide mentre il gruppo di controllo era stato trattato solo con terapia standard, mentre il disegno migliore per dimostrare l’efficacia della budesonide avrebbe previsto terapia standard + budesonide rispetto a terapia standard + placebo, il tutto condotto in doppio cieco (cioè in modo tale che né il medico sperimentatore né il paziente fossero a conoscenza del gruppo a cui quest’ultimo era stato casualmente assegnato). Questo per evitare il fattore di confondimento del possibile effetto placebo indotto dalla somministrazione del farmaco inalatorio (effetto che soprattutto nelle formi lievi di malattia non può essere trascurato). Da notare poi che questi incoraggianti risultati non sono stati ad oggi confermati da studi su larga scala. Per queste ragioni, l’EMA e l’AIFA non hanno ritenuto ancora sufficienti le prove a favore della budesonide per raccomandarla nella pratica clinica ( https://www.aifa.gov.it/-/dati-insufficienti-sull-uso-di-corticosteroidi-per-inalazione-per-il-trattamento-di-covid-19). Insomma, riassumendo, sulla base delle evidenze ad oggi disponibili  possiamo dire che i corticosteroidi ad alta potenza sono assolutamente utili nelle formi gravi di malattia e vanno usati, anche se non sono una panacea; nelle forme lievi gestibili a domicilio, i corticosteroidi con effetto sistemico non vanno usati, mentre i corticosteroidi inalatori, in particolare la budesonide, rappresentano una strategia promettente, ma che necessita di ulteriori studi prima che possa esserne presa in considerazione l’autorizzazione per l’uso clinico di routine.

 

  • Ho sentito dire che la soluzione definitiva al COVID 19 è un farmaco contro la gotta. Perché nessuno ne parla?” Il farmaco in questione è la colchicina, un vecchio medicinale con azione anti-infiammatoria che, nella pratica clinica, trova indicazione principalmente nel trattamento acuto degli attacchi di artrite gottosa. Per il suo ben noto effetto anti-infiammatorio, la colchicina è stata effettivamente sperimentata come terapia anti COVID 19. E i risultati preliminari sono senza dubbio incoraggianti. In particolare, un piccolo trial condotto in Grecia all’inizio della pandemia su soli 105 pazienti ha confrontato la terapia standard + colchicina rispetto alla sola terapia standard in pazienti ospedalizzati per Covid 19(https://jamanetwork.com/journals/jamanetworkopen/fullarticle/2767593). Da questo studio, è emerso, tra le altre cose, che nel gruppo trattato con colchicina si è apprezzato un decorso clinico più favorevole rispetto al gruppo di controllo (tecnicamente, è stata rilevata una differenza statisticamente significativa in termini di percentuale di pazienti che ha manifestato un deterioramento clinico di oltre 2 punti su una scala di gravità clinica a 7 item). Questo studio però per le sue dimensioni, per l’assenza del doppio cieco e del confronto con il placebo ha un valore molto relativo. Più consistente è il dato emerso da un trial multicentrico randomizzato controllato in doppio cieco colchicina contro placebo pubblicato su Lancet a maggio 2021 su un gruppo di pazienti non ospedalizzati (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8159193/pdf/main.pdf). In questo studio, sono stati arruolati tra marzo 2020 e dicembre 2020 in vari paesi del mondo un totale di 4448 pazienti, di cui 2235 sono stati casualmente assegnati al gruppo colchicina e i restanti 2253 al gruppo placebo. Per essere ammessi allo studio, era sufficiente una diagnosi o clinica o microbiologica di Covid 19 (per intenderci, sono stati inclusi anche pazienti cui è stato diagnosticato il Covid solo sulla base dei segni e dei sintomi, senza conferma tramite tampone molecolare): più precisamente su 4448 pazienti totali, 4159 avevano avuto la conferma diagnostica tramite tampone e i restanti 289 avevano ricevuto solo una diagnosi clinica. Ebbene, considerando l’intera coorte, non è stata apprezzata una differenza statisticamente significativa tra gruppo colchicina e gruppo placebo in termini di efficacia clinica (rischio composito di morte e ospedalizzazione), anche se si rilevava comunque un trend a favore della colchicina; considerando invece solo i pazienti con diagnosi molecolare di infezione da Sars Cov 2, la colchicina ha mostrato un discreto beneficio che ha raggiunto la significatività statistica: è stata infatti osservata una riduzione del 25% del rischio composito di ospedalizzazione+ morte nel gruppo trattato con colchicina rispetto al gruppo di controllo. Il dato sembra in effetti buono (anche se non eccezionale!), ma attenzione perché non è tutto ora quel che luccica.

Alert: ora il discorso si fa un pochino più ostico perché dobbiamo ragionare un po’ di statistica: chi è interessato provi a seguirmi nel ragionamento, gli altri vadano pure direttamente alle conclusioni.

Bene, abbiamo detto che il dato puntuale di efficacia della colchicina emerso da questo studio è pari al 25 per cento, ma il dato secco che esce dall’analisi di un campione non è estensibile in automatico alla popolazione generale, perché nella sua determinazione potrebbe ovviamente aver giocato un ruolo anche il caso (il peso del fattore casuale è tanto maggiore quanto più piccolo è il campione selezionato). In statistica allora è possibile stimare con un certo di livello di accuratezza dove si sarebbe collocato il valore reale di efficacia se anziché il campione fosse stata analizzata l’intera popolazione: il metodo per far ciò è il calcolo dell’intervallo fiduciario (in inglese confidence interval, che impropriamente viene tradotto spesso in italiano con intervallo di confidenza).  Ebbene, secondo lo studio in questione, la stima di efficacia della colchicina, con intervallo fiduciario del 95 per cento, risulta compresa tra un poderoso 43 per cento e un misero 1 per cento. Senza avventurarci in un complesso discorso statistico, potremmo tradurre tutto ciò in questo modo: al netto di errori, possiamo stimare con un livello di fiducia del 95 per cento che, se anziché 4400 pazienti fosse stata arruolata l’intera popolazione avente esattamente le caratteristiche della coorte inclusa nello studio, avremmo potuto riscontrare un valore medio di efficacia della colchicina compreso tra l’1 e il 43 per cento. E’ evidente che se un farmaco come la colchicina, economico e ampiamente sperimentato nella pratica clinica, riducesse il rischio composito di morte e ospedalizzazione di un valore che tende al 43 per cento allora andrebbe usato subito, se invece lo riducesse in una misura che si avvicina all’1 per cento bisognerebbe pensarci bene ad autorizzarlo, poiché probabilmente in questo caso non è utile, visto che a quel punto i benefici modestissimi potrebbero essere ampiamente superati dai rischi di effetti avversi (in particolare diarrea). Merita poi qualche considerazione l’incongruenza tra il risultato ottenuto considerando l’intera coorte (diagnosi clinica+ diagnosi molecolare) e quello ottenuto considerando solo i pazienti con tampone positivo per infezione da SARS COV 2. Ricordo a questo proposito che basandosi sull’intera coorte lo studio ha fallito l’obiettivo nella misura in cui, pur essendo stata riscontrata una differenza tra placebo e colchicina a favore di quest’ultima, i risultati non permettevano di dire se tale scarto fosse dovuto al farmaco oppure al caso (o per meglio dire la probabilità che fosse dovuta al caso è risultata inaccettabilmente alta rispetto alla soglia di significatività stabilita a priori); considerando invece solo il gruppo con tampone molecolare positivo, il beneficio del farmaco ha raggiunto la significatività statistica, il che equivale a dire che la probabilità che il dato ottenuto fosse dovuto al caso e non al farmaco è risultata inferiore al 5 per cento (per convenzione, nella maggioranza degli studi clinici si definisce come statisticamente significativa una differenza tra farmaco e placebo se la probabilità che tale differenza sia dovuta al caso risulta inferiore al 5 per cento, che poi è esattamente come dire che la probabilità che sia dovuta al farmaco è superiore al 95 per cento). Tale incongruenza tra dato sull’intera coorte e dato sul gruppo con tampone molecolare  si presta a una duplice possibile interpretazione: da una parte, si può ipotizzare che i soggetti che hanno ricevuto diagnosi solo clinica di Covid in realtà avessero (almeno in una certa percentuale dei casi) un’altra malattia e quindi la loro presenza nella coorte abbia in un certo senso “sporcato” i risultati, facendo sì che il vantaggio della colchicina –che pure è reale – risultasse alla fine statisticamente non significativo. D’altra parte, è però pure possibile che allargando la coorte studiata (quindi aumentando la potenza dello studio) non si sia confermata la significatività statistica del vantaggio del farmaco osservata nel gruppo di soli pazienti con diagnosi molecolare di infezione da SARS Cov 2, per cui tale vantaggio era in realtà un falso positivo. Prendendo per buona questa seconda interpretazione (che per quanto improbabile, non è impossibile) sarebbe cioè accaduto che, aumentando la numerosità del campione, abbiamo finito con l’accorgerci che l’efficacia del farmaco era in realtà un artefatto statistico, o se preferite, un dato fasullo. Insomma, lo studio per quanto incoraggiante lascia diversi dubbi aperti. In ragione di questa incertezza interpretativa, gli stessi Autori, pur definendo la colchicina un’opzione di terapia domiciliare che potrebbe essere considerata nei pazienti a maggior rischio di complicanze, scrivono che “replication in other studies of PCR-positive community-treated patients is recommended” (traduzione: la replicazione dei risultati in altri studi su pazienti non ospedalizzati con diagnosi molecolare è raccomandata). Ed è probabilmente sempre in ragione di questa incertezza interpretativa che le agenzie regolatorie non hanno ad oggi autorizzato l’uso della colchicina per il trattamento del Covid 19. E questo avviene perché, contrariamente alla vulgata no-vax corrente, le agenzie del farmaco sono estremamente prudenti nell’autorizzare i farmaci e prima di autorizzarli pretendono dati solidissimi di efficacia e sicurezza. (“E allora i vaccini?” Ecco, i vaccini anti Covid 19 sono proprio un esempio di prodotti con un profilo eccezionale di efficacia e sicurezza e questo è il motivo per cui sono stati autorizzati, altro che “sieri sperimentali”, “ci usano come cavie” e via discorrendo.)

Insomma in conclusione (qui potete tornare a leggere tutti!): la colchicina è un farmaco anti-infiammatorio promettente per la cura del Covid 19 che merita di essere assolutamente studiato, ma ad oggi non abbiamo dati sufficientemente solidi di efficacia che ne permettano l’uso nella pratica clinica.

  • La cura per il Covid il Dott. De Donno l’aveva trovata, è il plasma iperimmune, ne hanno parlato pure sulle Iene, ma Big Pharma gli ha fatto la guerra poveraccio e il Dott. De Donno è morto!” Allora, anzitutto è necessario esprimere la massima solidarietà e le più sentite condoglianze alla famiglia del Dott. Giuseppe De Donno che si è tragicamente tolto la vita. Fatta questa fondamentale e doverosa premessa, va però detto che sul plasma purtroppo il Dott. De Donno si sbagliava. E si sbagliavano anche le Iene, come del resto altre volte è capitato (basti pensare al sostegno dato dalla trasmissione di Italia 1 alla truffa Stamina). Ovviamente, non è il sottoscritto (che non conta nulla) a dire che De Donno era in errore, sono gli studi scientifici a dircelo. Prima di vederli nel dettaglio, facciamo però un brevissimo riepilogo di cosa è il plasma iperimmune.

Per plasma iperimmune si intende il plasma (ovvero la parte liquida del sangue) pieno di immunoglobuline (meglio note al grande pubblico come anticorpi) ricavato da soggetti guariti dal Covid o in fase di convalescenza che viene somministrato a persone malate. Il razionale è: gli anticorpi del guarito aiuteranno il malato a sconfiggere la malattia. L’idea è tutt’altra che assurda e non è neanche una novità in medicina. In diverse malattie, l’uso del plasma (o meglio del siero, ovvero il plasma privato dei fattori di coagulazione), è risultato assolutamente utile: si pensi in particolare al tetano e alla difterite. Quindi chiariamoci subito: quando parliamo di plasma, non parliamo di stregoneria. Parliamo al contrario di una cosa con un fortissimo razionale scientifico. Detto ciò, purtroppo, il razionale in medicina non basta: servono le prove di efficacia. E le prove ahimè per i pazienti gravi sono ad oggi sostanzialmente assenti, per i pazienti con malattia lieve risultano invece assolutamente insufficienti. Vediamo perché. Un trial randomizzato controllato in doppio cieco plasma contro placebo su pazienti ospedalizzati per Covid 19 e pubblicato sul New England Journal of Medicine (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7722692/pdf/NEJMoa2031304.pdf) a novembre 2020 non ha individuato alcuna efficacia del plasma rispetto al placebo né in termini di miglioramento clinico a 30 giorni dalla somministrazione né in termini di riduzione della mortalità. Altri studi su popolazione di pazienti con caratteristiche analoghe hanno portato a simili risultati.  Mettendo insieme tutti i lavori di ricerca pubblicati fino a maggio 2021, una rigorosissima meta-analisi della Cochrane (https://www.cochranelibrary.com/cdsr/doi/10.1002/14651858.CD013600.pub4/abstract?cookiesEnabled) ha alla fine fatto chiarezza definitiva sul tema. Queste le conclusioni a cui gli scienziati sono arrivati: “We have high certainty in the evidence that convalescent plasma for the treatment of individuals with moderate to severe disease does not reduce mortality (…)We are very confident that convalescent plasma has no benefits for the treatment of people with moderate to severe COVID19” (traduzione letterale: “Noi abbiamo una grande sicurezza nell’evidenza che il plasma convalescente per il trattamento di individui con malattia da moderata a severa non riduca la mortalità (…) Noi siamo molti fiduciosi che il plasma non abbia benefici per il trattamento di persone con Covid 19 da moderato a severo”).

Come se non bastasse, pochi giorni fa è stato pubblicato su Nature Medicine uno studio randomizzato controllato plasma contro placebo su pazienti ospedalizzati che ha ulteriormente confermato la totale inutilità del plasma rispetto ai parametri di intubazione e mortalità (https://www.nature.com/articles/s41591-021-01488-2). Ma questo studio ci ha detto anche altro: il plasma, infatti, non solo non è risultato utile ma è risultato anche pericoloso. In questo studio, infatti, i pazienti trattati con plasma hanno presentato più frequentemente di quelli trattati con placebo effetti avversi seri, come ad esempio peggioramento dell’insufficienza respiratoria. Insomma, da questi risultati, emerge che il plasma almeno nei pazienti gravi non vada assolutamente utilizzato. Dobbiamo allora seppellire per sempre questa strategia terapeutica? In realtà, se nei pazienti gravi l’ipotesi plasma merita di essere definitivamente abbondonata perché abbiamo oggi una montagna di dati tutti negativi, come cura nei pazienti con malattia lieve i dati a disposizione non possono essere considerati definitivi. Non a caso gli Autori della succitata meta-analisi Cochrane a riguardo scrivono: “We are uncertain about the effects of convalescent plasma for treating people with mild COVID19 or who have no symptoms” (traduzione letterale: “noi siamo incerti riguardo gli effetti del plasma convalescente per il trattamento di persone con COVID-19 lieve o che non hanno sintomi”). L’incertezza nasce dalla carenza di dati, legata al fatto che ad oggi è stato pubblicato un solo trial per questa categoria di pazienti. Si tratta di un piccolo studio in doppio cieco realizzato in Argentina su soli 160 pazienti anziani con più di 65 anni con malattia lieve, che entro 72 ore dall’esordio dei sintomi venivano assegnati casualmente in rapporto 1:1 al trattamento o con plasma o con placebo (soluzione salina allo 0.9%). La particolarità dello studio è che nel gruppo sperimentale non è stato somministrato un plasma qualunque, ma solo plasma ad alto titolo anticorpale (cioè molto ricco di anticorpi, per la precisione plasma con titolo IgG anti spike > 1:1000) (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7793608/pdf/NEJMoa2033700.pdf). Questi sono i risultati: alla fine dei giochi, sono stati ospedalizzati 13 pazienti su 80 nel gruppo plasma rispetto a 25 su 80 sul gruppo di controllo, per un’efficacia del plasma nella riduzione del tasso di ospedalizzazione del 48 %. Sembrerebbe un risultato meraviglioso, ma anche qui come sempre cautela. Lo studio ha una numerosità assai scarsa (solo 160 pazienti) e anche qui se non ci limitiamo al dato puntuale di efficacia ma guardiamo ai valori compresi nell’intervallo fiduciario il risultato si ridimensiona molto. Infatti, con un intervallo fiduciario al 95%, l’efficacia varia da un mostruoso 71% a un modestissimo 3% (detto in altri termini: possiamo essere sicuri al 95% che l’efficacia reale che si riscontrerebbe se venisse trattata l’intera popolazione con le caratteristiche della coorte inclusa nello studio si collocherebbe nell’intervallo compreso tra 3 e 71%). Insomma, il risultato pur incoraggiante lascia un estremo margine di incertezza, per cui servono altri studi per capire se si conferma e se sì in che misura questo vantaggio del plasma. Inoltre, pure assumendo come buoni questi risultati preliminari, va precisato che questi risultati valgono solo se si trattano i pazienti entro 72 ore e solo con plasma ad alto titolo (per inciso: lo studio ha anche suggerito che tra tutti i soggetti che avevano ricevuto il plasma il vantaggio del farmaco aumentava all’aumentare del titolo anticorpale). In effetti, è sempre da ricordare che non esiste il plasma, esistono i plasmi. Infatti, la risposta anticorpale, a parità di agente infettivo, è estremamente variabile da persona a persona: alcuni soggetti producono molti anticorpi, altri meno. E non tutti gli anticorpi sono utili: nella lotta al virus, solo gli anticorpi con attività neutralizzante hanno un effetto protettivo, ma non tutti gli anticorpi hanno questa caratteristica. Infondendo il plasma di un soggetto guarito o convalescente, si potrebbero cioè infondere anche anticorpi mal funzionanti che non solo non sono protettivi, ma potrebbero essere anche controproducenti, dal momento in cui vanno a competere con gli anticorpi neutralizzanti prodotti dal malato. Insomma, differentemente dagli anticorpi monoclonali che possono essere prodotti in laboratorio con le caratteristiche desiderate affinché siano efficaci contro il virus, gli anticorpi presente nel plasma di un soggetto non li possiamo scegliere. Di conseguenza, gli anticorpi infusi potrebbero essere d’aiuto come no, soprattutto nel contesto di una malattia come il Covid 19 che induce risposte immunologiche estremamente diverse da soggetto a soggetto. E ovviamente, ammesso e non concesso che le conclusioni del trial argentino siano corrette, andare ad individuare i plasmi ad alto titolo anticorpale con alta percentuale di anticorpi neutralizzanti e andare ad infonderli nei malati a 72 ore dall’esordio dei sintomi sul piano pratico è complicatissimo. A questo punto, nei pazienti con malattia lieve ad alto rischio di peggioramento è molto più sensato utilizzare gli anticorpi monoclonali anti SARS COV 2, che, seppur con i limiti già più volte illustrati in questa rubrica, hanno dimostrato in questo contesto un profilo di efficacia/sicurezza assolutamente favorevole e ampiamente consolidato.

Insomma, riassumendo: il plasma iperimmune è sicuramente inefficace e forse anche pericoloso nei soggetti con malattia moderata- grave; non sappiamo se sia utile o meno nei soggetti con malattia lieve, ma anche in questo caso, avendo delle alternative a disposizione molto più facilmente utilizzabili sul piano pratico e di sicura efficacia, difficilmente si potrà rivelare un’opzione risolutiva.

  • Dei medici dicono che con i loro protocolli curano le persone. Perché non starli a sentire?” Ecco, questo è esattamente il punto nodale. E’ il punto nodale perché se non capiamo questo qualunque sforzo divulgativo relativamente alla scienza in generale e alla medicina in particolare perde significato. E questo va ben al di là della questione Covid. Nella scienza, quello che dice il singolo individuo non conta nulla, anche se è il più grande scienziato del mondo e ha più Nobel in bacheca che paia di mutande nel cassetto. Ovviamente, è ragionevole prendere in maggiore considerazione l’opinione di un esperto che l’opinione di un profano. Ma sempre di opinione si tratta. Affinché da opinione diventi verità scientifica, è necessario che l’idea sia stata verificata sperimentalmente secondo le regole del metodo scientifico. Per farvi capire questo concetto, vi faccio questo esempio. Io sottoscritto Leonardo Biscetti, di professione medico, potrei raccontarvi senza dire baggianate che consigliando un bicchiere d’acqua con due gocce di limone all’ora a dei pazienti con Covid 19 con malattia lieve gestibile a domicilio potrei ottenere la guarigione in un’altissima percentuale di casi (diciamo almeno l’80-90 per cento). In quel caso sarebbe l’acqua con due gocce di limone a guarire? Possibile, ma improbabile visto che la malattia nell’80- 90 per cento dei casi guarirebbe comunque da sola. Per dimostrare che è l’acqua con due gocce di limone che guarisce dovrei prendere un grande gruppo di pazienti con Covid 19 e di questi una metà li dovrei trattare con acqua e limone e l’altra metà con placebo (es. acqua semplice) e poi dovrei confrontare l’evoluzione della malattia nei due gruppi per vedere se si riscontrano differenze oppure no. Ammettiamo che trovo delle differenze. Bene, questo non mi basta perché queste differenze potrebbero benissimo dipendere dal caso. E allora che cosa dovrei fare? Dovrei stimare con opportuni metodi statistici quanto è la probabilità che quelle eventuali differenze siano dovute al caso oppure all’effetto di acqua e limone. Ammettendo pure che alla fine viene fuori che c’è un’alta probabilità che acqua e limone funzioni, ciò comunque non basterebbe, perché come una rondine non fa primavera, di regola non basta uno studio per fare verità scientifica. Sarebbe quindi necessario la ripetizione dell’esperimento da parte di altri gruppi di ricerca per verificare se le conclusioni a cui sono arrivato io sono giuste oppure no. Perché magari nella raccolta dei dati o nella selezione dei pazienti potrei aver fatto degli errori di cui non mi sono accorto e che magari hanno falsato il risultato. Solo se tanti gruppi di ricerca arrivano alle medesime conclusioni, allora quelle conclusioni diventano verità scientifica (quindi verità fino a prova del contrario). Questo ridotto all’osso è il metodo scientifico. Ed è grazie a questo metodo che oggi in Italia abbiamo un’aspettativa di vita maggiore di 80 anni, mentre ai tempi dell’Unità d’Italia (1861) arrivava a 50 anni circa. E’ grazie al metodo scientifico che abbiamo trovato cure per malattie che prima non sapevamo curare, che abbiamo migliorato le capacità di produrre cibo eccetera eccetera. Ecco non tornerei alla medicina degli sciamani della preistoria. Continuerei sulla strada intrapresa da qualche secolo che tutto sommato qualche risultato l’ha dato. Insomma: fidiamoci della scienza.
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