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Home » Cronaca

I migranti che imparano ad amare il mare dopo essere quasi morti nel Mediterraneo

Immagine di copertina
Credit: Valerio Nicolosi, TPI

Sulla spiaggia di Messina, Massimo e Silvana preparano le bombole d’ossigeno. Le mute da sub sono già schierate sulla sabbia di fronte all’acqua cristallina, pronte per essere indossate. Jallow* e i suoi compagni guardano quell’acqua con un misto di paura, diffidenza e attrazione. 

L’iniziativa degli insegnanti della comunità di Sant’Antonio dove vivono alcune decine di giovani migranti è semplice: riavvicinare questi ragazzi al mare e curare (o lenire) i traumi derivanti dalle tragiche traversate a bordo di un gommone aiutandoli a vincere la loro paura dell’acqua. Una sfida che questi giovani hanno raccolto, malgrado la paura e i ricordi dolorosi.

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“Era una notte molto fredda, ero talmente paralizzato dalla paura che non riuscivo a parlare con gli altri ragazzi che erano sulla barca con me”, racconta Jallow, di origini gambiane. Ricorda di essere svenuto, poi nulla, poi la mano di uno sconosciuto che lo strappa dal blu profondo del mare per trascinarlo su un’altra imbarcazione.

Quando si sveglia, una voce in francese gli dice: “Andiamo in Sicilia”. “Un luogo di cui non avevo mai sentito parlare, dice Jallow. Qui, in a Messina, precisamente all’interno della comunità di Sant’Antonio, il giovane comincia una nuova vita, insieme ad altri coetanei sfuggiti alla miseria prima e al Mediterraneo poi.

Friendly Sea: trasformare il mare in un alleato

Due anni fa, alcuni insegnanti della scuola nautica locale prendono parte ai “Welcome days” della Comunità di Sant’Antonio, ed è così che nasce l’idea di riavvicinare i migranti al mare. L’iniziativa viene però inizialmente recepita come una minaccia dai ragazzi della Comunità.

Il preside decide così di lanciare il progetto Friendly Sea (Mare Amichevole), un corso finalizzato a insegnare ai giovani rifugiati tecniche di primo soccorso in mare, nozioni basilari di sub e i principi fondamentali delle leggi marittime. Vengono inoltre organizzati degli incontri con i guardacoste del posto.

Pinci, il primo istruttore, spiega di avere preferito il mare a una semplice piscina per via del significato simbolico e dell’impatto psicologico di questo elemento sui migranti.

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“Il primo giorno, alcuni non hanno nemmeno voluto mettere un piede nell’acqua”, racconta Pinci. “Altri erano più coraggiosi e hanno nuotato un po’, ma non si sono mai immersi sotto la superficie.

Oggi Jallow, che ha preso parte al corso di sub, sta frequentando l’ultimo anno di scuola nautica. Ma all’inizio era scettico: il mare non gli faceva pensare che a disperazione e tragedia.

“Oggi, ho meno paura. Il mio obiettivo è di poter aiutare, un giorno, altri migranti a non temere più il mare. Voglio anche imparare le tecniche di soccorso per salvarli dall’affogamento”, afferma il giovane, oggi diciottenne.

Ester Russo, una psicologa specializzata nei traumatismi mentali dei migranti, spiega che quelli che sopravvivono alle traversate in mare devono spesso fare i conti con angoscianti sensi di colpa per non essere riusciti a salvare dalla morte le donne e i bambini con cui hanno condiviso la traversata.

“Proprio per questo, la scelta di tenere i corsi in mare e non in piscina è particolarmente significativa”, spiega l’esperta, per poi concludere: “Ai porti di arrivo, ho incontrato molto migranti traumatizzati che, malgrado delle orribili esperienze di naufragi, associavano ancora in modo forte l’idea del mare a un senso di umanità, di fratellanza e di altruismo”.

*I nomi marcati da un asterisco sono inventati per proteggere la privacy degli intervistati

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