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“Sull’immigrazione non possiamo più fare finta di niente”: intervista a Giorgia Linardi (Sea Watch)

Immagine di copertina
Credit: AGF

“Le Ong incentivano le partenze? Falso. Tant’è che col Governo Meloni c’è stato un record di sbarchi. Il punto non è essere pro o contro l’immigrazione ma trovare soluzioni. L’intesa con l’Albania? Così l’Italia evade le sue responsabilità”

«Il punto non è se il fenomeno migratorio piaccia o meno, bisogna partire dal presupposto che il fenomeno c’è e va affrontato. Il patto tra Italia e Albania sui migranti? È un evidente tentativo da parte del Governo di evadere le proprie responsabilità». Lo dichiara a TPI Giorgia Linardi, portavoce e consulente legale dell’Ong tedesca Sea Watch.

Linardi è tra gli ospiti de “L’Eredità delle Donne”, il festival diretto da Serena Dandini in programma a Firenze dal 24 al 26 novembre: sarà tra le protagoniste del panel dedicato al fenomeno migratorio legato al cambiamento climatico. 

Ci può spiegare meglio questo problema?
«Le faccio un esempio concreto che riguarda le ragazze nigeriane che purtroppo finiscono spesso nelle maglie della tratta dello sfruttamento e della schiavitù sessuale in Europa. Molte di queste ragazze sono originarie di zone rurali della Nigeria, dalle quali si spostano con le loro famiglie per ragioni legate al cambiamento climatico e, quindi, al venire a mancare delle risorse necessarie per il sostentamento delle loro comunità d’origine. Alcune di queste ragazze si sono spostate in zone urbane, in particolare a Benin City: qui, però, ben presto si sono venute a creare sacche di marginalizzazione, povertà e degrado».

«Gran parte di loro non ha trovato nessuna modalità di sostentamento e in moltissimi casi le giovani sono state attirate da trafficanti che promettevano loro di lavorare in Europa e che invece hanno finito per ricattarle e costringerle alla prostituzione una volta arrivate nel Vecchio Continente. Abbiamo poi ovviamente persone che scappano a seguito di catastrofi legate al cambiamento climatico. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nei prossimi anni saranno decine di milioni le persone che si sposteranno dal continente africano per ragioni esclusivamente legate al cambiamento climatico». 

Il festival è dedicato alle “Madri della Patria”, ovvero a tutte quelle donne che contribuiscono a costruire un mondo migliore. Lei ha mai incontrato difficoltà proprio per il suo essere donna dovendosi anche spesso rapportare con un mondo prettamente maschile come, ad esempio, quello dei vertici militari?
«Io ho iniziato a occuparmi del tema migratorio subito dopo la fine degli studi e quindi avevo due problemi: essere donna e anche molto giovane. L’approccio con gli alti vertici del mondo militare non è stato semplicissimo sotto questo punto di vista, sicuramente l’essere donna e giovane non ha facilitato sempre il dialogo».

«C’è sempre la necessità di dimostrare di essere competenti prima di sentire di essere presa davvero sul serio, questo l’ho percepito. Ricordo ancora un incontro con un ufficiale di alto rango che prima di rispondere a una mia domanda mi ha chiesto quanti anni avessi, facendo alcune considerazioni legate al mio essere giovane. Poi c’è tutta una questione riguardante la politica e la propaganda politica che in una determinata fase ha facilitato il fatto di essere presa di mira con minacce dirette e insulti sessisti, cose che magari non accadevano a chi ricopriva la mia stessa posizione in un’altra Ong. L’emblema di questa tendenza è stato il caso di Carola Rackete». 

Voi continuate a essere operativi nel Mediterraneo?
«Sea Watch è operativa, abbiamo sia operazioni di soccorso in mare che di monitoraggio aereo. In questo momento, però, stiamo affrontando una fase di forte deterrenza da parte del Governo con un attenzionamento delle nostre operazioni, oltre a una legge che pone delle limitazioni importanti al soccorso delle Ong prevedendo, ad esempio, l’assegnazione di porti lontanissimi».

«Questo è il quadro normativo in cui operiamo in questo momento con l’attuale norma che va a sovvertire il diritto internazionale, che prevede l’intervento tempestivo di qualsiasi nave per soccorrere le persone che si trovano in mare. Anche se non sono mancate negli ultimi mesi delle richieste di supporto da parte della Guardia Costiera italiana, che comunque fatica a far fronte da sola alle necessità di soccorso e intervento in mare». 

Cosa pensa dell’accordo tra Italia e Albania per la realizzazione di due centri per l’identificazione e permanenza dei migranti?
«L’accordo con l’Albania è un evidente tentativo da parte del Governo di evadere le proprie responsabilità rispetto al diritto delle persone soccorse in mare ad accedere all’asilo. Si pongono delle problematiche sotto una serie di profili giuridici. C’è un problema di applicazione della normativa europea, perché la Commissione europea ha detto che le domande d’asilo possono essere considerate nel momento in cui vengono depositate sul territorio di uno stato membro, e l’Albania non lo è».

«Poi c’è da capire quale tipo di monitoraggio e tutela sarà predisposto nei confronti di queste persone. Il rischio è che – anche alla luce della reazione della magistratura ai recenti emendamenti alla legge Cutro, che di fatto li ha sgretolati – l’Italia reagisca andando a fare la stessa cosa, per cui il suo stesso sistema di giustizia l’ha bloccata, sul territorio di un altro Paese. Inoltre, nonostante la presidenza abbia definito questo modello innovativo, in realtà emula quanto già fatto dal Regno Unito in Ruanda, che però è stato bloccato sia dai tribunali britannici che dalla Corte europea per i diritti umani. Ma il fatto che l’Italia ignori le decisioni della Corte europea è noto». 

Perché, a suo avviso, le Ong vengono spesso denigrate, non solo dalla politica, ma anche da parte dell’opinione pubblica?
«Sicuramente c’è un danno reputazionale molto importante legato alla campagna denigratoria messa in atto a partire dal 2017 in concomitanza dell’accordo bilaterale con la Libia. C’è un generale senso di diffidenza da parte dell’opinione pubblica nei confronti delle Ong e questo purtroppo è un danno molto difficile da sradicare».

«Nonostante sia stato ampiamente provato che le Ong non costituiscono un fattore di attrazione per le partenze – e questo argomento è smontato oltretutto dai fatti, visto che con il governo Meloni si è registrato un record di arrivi – continua questo clima di diffidenza con cui purtroppo dobbiamo fare i conti». 

Il tema della migrazione spesso viene affrontato in maniera superficiale e propagandistica. Cosa andrebbe fatto concretamente?
«Anzitutto bisogna ricreare i presupposti affinché in Italia e in Europa vi sia un’accoglienza degna. Questo significa strutture, servizi e tutta una serie di questioni che richiedono tempo. La verità è che c’è bisogno di una rivoluzione culturale: fino a quando noi avremo diffidenza e paura nei confronti dello straniero non riusciremo mai a gestire con tranquillità questo fenomeno».

«È necessario, poi, adeguare la normativa europea, va scavalcato il principio della sola responsabilità del Paese di primo arrivo, che impedisce una gestione più condivisa e solidale su scala europea. E poi c’è la questione urgentissima del soccorso in mare: noi non possiamo continuare a girarci dall’altra parte rispetto al fatto che un sacco di persone muoiono nel Mediterraneo. Se l’Europa culla veramente determinati valori di civiltà non può non intervenire: una missione di soccorso europea è indispensabile e tra l’altro favorirebbe anche una gestione più controllata della migrazione».

«Bisogna lavorare a soluzioni immediate, di breve, medio e lungo termine e bisogna farlo su tutti i fronti contemporaneamente. La questione non è essere o non essere migrazionisti o buonisti. Parliamo di un fenomeno che c’è e che, se non gestito bene, crea poi insicurezza: il punto non è se piaccia o meno il fenomeno migratorio, bisogna partire dal presupposto che il fenomeno va affrontato».

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