La guerra a Gaza, il contagio dell’odio antisemita e l’assedio alla memoria dell’Olocausto
Sulla scia del conflitto aumentano gli episodi di antisemitismo dagli Usa all’Europa, Italia compresa. Ma mentre il dibattito pubblico confonde intolleranza e critiche a Israele, avvelenare i pozzi rischia di farci dimenticare la Shoah
Poche guerre come quella a Gaza possono mostrare come un conflitto non riguardi solo due popoli o un territorio, ma possa smuovere l’opinione pubblica in tutto il mondo, accendendo moti di simpatia e antipatia, amore e odio, scuotendo ordini precari e facendo riemergere sentimenti sopiti che si sperava fossero ormai relegati al passato. L’antisemitismo è purtroppo uno di questi, e uno scossone come il tragico attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, marcatamente rivolto a uccidere e rapire uomini e donne israeliani in quanto tali, e la devastante guerra lanciata a Gaza da Israele, una risposta militare durissima, con un altissimo numero di vittime civili che ha incrinato l’immagine di Israele nel mondo, hanno contribuito a rompere quel precario argine e far uscire nuovamente questa terribile forma di odio dalle radici molto antiche.
Cifre preoccupanti
Intanto, i dati: secondo l’Anti-Defamation League (Adl), il numero di episodi di antisemitismo è cresciuto ovunque a partire dai giorni immediatamente successivi al 7 ottobre: in Italia, ad esempio, nel corso del 2023 sono stati registrati 454 episodi di antisemitismo, in netta crescita rispetto ai 241 dell’anno precedente e la maggior parte dei quali proprio negli ultimi mesi dell’anno, quelli appunto successivi al massacro. Un dato perfettamente in linea con gli altri Paesi del mondo, dalla Francia al Regno Unito, dalla Germania agli Stati Uniti, una tendenza confermata nel corso del 2024 – con i dati di simili episodi ancora in crescita –, in attesa di conoscere con maggiore precisione le cifre del 2025. Solo nelle ultime settimane, se l’attentato alla sinagoga di Manchester in cui sono state uccise due persone è un episodio che ha conquistato i titoli della stampa, meno rilievo ha avuto l’aggressione contro un uomo di religione ebraica al grido di frasi antisemite a Hyères, a pochi chilometri da Parigi, così come una scritta sul muro di un panificio kosher di Roma nella zona di viale Marconi che auspicava il rogo degli ebrei. Episodi diversi, di differenti gradi di gravità, compiuti da mani non sempre riconoscibili ma accomunati da un solo: obiettivo: colpire gli ebrei in quanto tali.
In un momento storico in cui Israele è stato prima colpito dal più grave attacco terroristico della sua storia e poi è finito al centro di feroci critiche internazionali per la sua reazione, pressioni di ogni genere sugli ebrei sono cresciute in tutto il mondo.
Paragoni fuori luogo
Era stata però la senatrice a vita, Liliana Segre ,a criticare questo metodo nel gennaio 2024, notando che lei in quanto ebrea non deve in alcun modo discolparsi per ciò che compie Israele. Aggiungendo poi un’altra cosa fondamentale: che le azioni dello Stato ebraico non possono in alcun modo essere paragonate alla Shoah e il giorno della memoria non deve essere mescolato con quanto accade a Gaza, concludendo con quello che è uno dei temi più importanti quando si parla di antisemitismo: «Evidentemente hanno un bisogno spasmodico di fare pari e patta con la Shoah».
Questa frase coglie un punto fondamentale, ovvero il rischio dei tentativi di ridimensionamento della Shoah, spesso facendo leva anche inconsapevolmente – perché purtroppo certi pregiudizi spesso si radicano nella società a tal punto – sullo stereotipo del vittimismo ebraico, e cercando qualche ragione per “pareggiare i conti” e mettere a tacere la memoria ebraica sull’Olocausto. Nota a margine: questo articolo non tratterà di quali siano le ipotesi di crimini di guerra compiuti da Israele a Gaza e non farà macabri conteggi che rischierebbero solo di svilire il dramma di qualsiasi singola vittima, ma è fuor di dubbio che la reazione israeliana al 7 ottobre sia arrivata a un punto tale da destare una forte preoccupazione per la popolazione civile della Striscia. Certo è che per quanto vi siano un numero incalcolabile di vittime, per quanto la situazione sia andata oltre il principio di proporzionalità e da più parti si urli a crimini di guerra anche molto gravi, ogni paragone con lo sterminio sistematico su larghissima scala rappresentato dalla Shoah è totalmente fuori luogo. Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, ha dichiarato sulle pagine del Corriere della Sera come ad oggi percepisca molti sforzi mediatici per cancellare dalla memoria il vero genocidio, in una grande operazione di lavaggio delle coscienze che rischia di portare a cancellare una memoria condivisa sulla quale si è formato l’attuale Occidente postbellico.
Ma quando Liliana Segre ha notato che in quanto ebrea non deve rispondere delle azioni di Israele, mette in luce anche un altro aspetto, ovvero che in una certa mentalità antisemita agli ebrei della diaspora è attribuita la fedeltà a Israele prima che al proprio Paese. Qualcosa cui ha risposto l’attivista e consigliera comunale francese Shannon Seban, con un recente libro dal titolo “Francaise et Juive, et alors?”, che si può facilmente tradurre in “Francese ed ebrea, e allora?”, e che ben lascia intendere come ci sia chi mette in dubbio che le due cose possano convivere. Shannon Seban si batte contro l’antisemitismo attraverso il dialogo interreligioso nel suo Paese, lo stesso in cui 130 anni fa scoppiava l’affaire Dreyfuss e che nel tempo ha sviluppato numerose forme di antisemitismo, compreso quello di estrema destra e quello legato all’estremismo islamico, sfociato in episodi di terrorismo come l’attacco al supermercato Hypercacher in concomitanza con l’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo. Ed è anche per via di questi rischi che esistono in Francia figure del mondo musulmano estremamente aperte al dialogo con il mondo ebraico e con Israele, come l’imam Hassen Chalghoumi, sotto scorta da anni per le minacce subite dal mondo estremista islamico per via del suo attivismo.
“Antisionismo”
Ma c’è un’altra questione che ruota intorno a un equilibrio semantico che deve farci riflettere, ed è il fatto che stia prendendo piede sempre di più la parola “antisionismo”, senza che da quasi nessuna parte venga messo in piedi un lavoro per chiarirne il significato, dal momento che spesso, tale parola, viene utilizzata per criticare le attuali politiche israeliane. Non è tuttavia questo il significato corretto, dal momento che il sionismo è il movimento alla base del concetto stesso di Stato di Israele, un movimento nato alla fine dell’Ottocento, che nel tempo ha trovato senz’altro opposizione anche tra gli ebrei stessi ma da quando esiste lo Stato ebraico rappresenta qualcosa di diverso di un dibattito. Dirsi consapevolmente antisionisti oggi significa voler mettere in dubbio l’esistenza stessa dello Stato di Israele: esiste altro Stato al mondo su cui, per qualsiasi ragione, si pone una questione simile? Complice anche la specifica storia dell’origine di Israele, spiegare in maniera efficace questo punto può essere complesso, e da più parti si è levata la richiesta di equiparare all’antisemitismo l’antisionismo in senso stretto.
Il problema, come abbiamo visto, spesso è proprio legato alla mancanza di consapevolezza, ma senza un lavoro di divulgazione efficace, senza che i partiti politici in questo momento storico, in mezzo alle legittime e giuste proteste che si levano in giro per il mondo mettano paletti semantici e ideologici oltre i quali non andare, allora il rischio è che prendano piede concetti sbagliati, anche dannosi. Perché se si inizia a equiparare la situazione di Gaza alla Shoah, se si inizia a far prendere piede alla parola antisionismo per criticare le attuali politiche israeliane, il rischio è quello di un avvelenamento dei pozzi verso le persone di religione ebraica per gli anni a venire, e questo non può essere accettabile. E in un momento di grandi proteste, anche spontanee, devono essere la politica e tutte le altre parti sociali coinvolte a fare un lavoro culturale per evitare che si vada verso direzioni che possono avere risvolti pericolosi.
Responsabilità politiche
Ma perché intorno al mondo ebraico si fa spesso confusione? Nonostante stereotipi antisemiti di lungo corso attribuiscano agli ebrei un potere globale incontrastato, dobbiamo in primo luogo chiarire che gli ebrei rappresentano invece una porzione estremamente piccola della popolazione globale, pari ad appena 20 milioni in tutto il mondo. Questa porzione risulta ancora più ridotta in Italia, dove gli ebrei sono circa 25mila, quasi tutti residenti a Roma e Milano. In gran parte d’Italia, non è scontato conoscere persone di religione ebraica, né sapere cosa sia o come sia fatta una sinagoga, e la conoscenza dell’ebraismo finisce per essere limitata al patrimonio comune con il cristianesimo e allo studio a scuola della Seconda guerra mondiale.
Non solo. La stessa conoscenza dell’Olocausto, in Italia, è vista dalla prospettiva del nostro Paese e spesso fa perdere la percezione di molti episodi importanti, dall’eccidio di Ponary in Lituania a quello di Babi Yar in Ucraina, massacri che aiutano a comprendere non solo la portata dell’Olocausto in termini di vittime, ma anche la sua distribuzione geografica. E man mano che il tempo passa, che i reduci della Shoah si fanno più anziani e sono sempre meno, preservare il ricordo di una tragedia la cui memoria è alla base dell’Occidente attuale diventa sempre più complesso: serve che qualcuno se ne faccia carico, portandola anche attraverso i passaggi più difficili ed evitando che certi pozzi rimangano avvelenati, con conseguenze per gli anni a venire. A farsene carico, in questo momento, dovrebbe essere la politica in primis.