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Non chiamatela emergenza: i femminicidi sono un fenomeno endemico

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Credit: AP Photo

Una donna su cinque ha subito almeno un abuso sessuale. Eppure il 64% dei casi non è denunciato. Per Istat, sono “numeri da genocidio”. Il questore di Savona, Alessandra Simone a TPI: “Bisogna sfruttare meglio le misure di prevenzione”. Ma, come ci spiega la presidente di Global Thinking Foundation, Claudia Segre: “La violenza di genere inizia da quella economica”

Lo stillicidio di violenze contro le donne avvenuto quest’estate non va trattato come un’emergenza. Si tratta infatti di un fenomeno sociale strutturale con radici profonde nella cultura nazionale, che dura ormai da troppo tempo; un’endemia. E come abbiamo fatto per la pandemia, servono strumenti di prevenzione specifici per contrastarla e agire con urgenza e forte determinazione.

Serve insomma un salto di qualità, dare una risposta coraggiosa alle nuove generazioni, senza colorazioni ideologiche o distinzioni di genere. Secondo l’ultimo rapporto Istat, il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita; il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica; il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale; il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi di abuso sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).

Numeri da «genocidio», scrive l’Istituto, tenendo conto che il 64% di queste vittime resta sommerso e che a quelle fisiche o sessuali si sommano altri tipi di violenza, più subdole e con effetti non meno devastanti, come quelle psicologiche ed economiche. 

Carenze strutturali
Quest’ultima ha effetti particolarmente disastrosi in un Paese dove, vuoi per stereotipi culturali, vuoi per mancanza di prospettive, il 37% delle italiane non possiede un conto corrente e dove i finanziamenti per il Reddito di Libertà, istituito nel 2020 per le donne vittime di violenza, sono stati dimezzati da 3 a 1,8 milioni di euro. «La violenza di genere inizia spesso da quella economica ed è una delle espressioni di abuso contro le donne più diffuse oggi e tuttavia sottovalutata», sostiene Claudia Segre, presidente e fondatrice della Global Thinking Foundation, da anni attiva in Europa e negli Stati Uniti per prevenire e combattere le situazioni di isolamento economico per le donne vittime di questa forma di violenza.

Secondo lo European Institute for Gender Equality, il costo sociale della violenza di genere sulle donne – i.e. costi della salute, mancanza di continuità lavorativa, costi delle famiglie, di orfani di femminicidio – è di 39 miliardi di euro, «un danno sociale enorme dovuto a un’incapacità di stabilire norme chiare che permettano come minimo di arginare quella carenza di formazione di forze di polizia, avvocatura e magistratura, nonostante questa sia stata resa obbligatoria nella Convenzione di Istanbul e nell’articolo 5 del Codice Rosso», sottolinea Segre.

Senza un linguaggio normativo chiaro, è difficile attuare azioni mirate e incidere su una prevenzione fatta di formazione diffusa e obbligatoria. Sulla scia di un processo di riforma dei reati sessuali che ha interessato, negli ultimi anni, molti Paesi europei, la Spagna nel 2022 ha approvato una nuova legge sul consenso – conosciuta popolarmente come Legge del “Solo Sì è Sí”, il Belgio ha attuato di recente la nuova legge sul femminicidio presentata appena un anno fa, e così la Francia con la legge sull’eguaglianza economica, il cyberbullismo e gli influencer.

Per Segre, «sono tutte leggi che danno una specifica connotazione a dei fenomeni sociali che hanno un costo elevatissimo. Siamo terzi in Europa per numero assoluto di donne uccise dai partner e le donne chiedono allo Stato di accelerare sulle norme penali, ma siamo lenti rispetto agli altri Paesi. Legiferando con questa rapidità in Europa sono riusciti a contenere il fenomeno e a ridurne gli effetti».

Presso l’Osservatorio della Presidenza del Consiglio con cui collabora, è stato emanato di recente il disegno di legge sui famosi “braccialetti rossi”, adesso in capo al ministero della Giustizia. «Grazie ai braccialetti, la Spagna ha ridotto i femminicidi da ultimo appuntamento praticamente a zero con il monitoraggio e la geolocalizzazione entro i 500 metri. Noi aspettiamo da anni che questi braccialetti vengano messi in funzione e continuiamo a scontrarci con questo tipo di fenomeno che in quella specifica situazione oggi non trova ancora un’azione di prevenzione efficace».

Senza ideologie
Secondo Segre ci troviamo di fronte a due problemi di fondo in Italia. «Laddove in Spagna si siedono al tavolo questura, forze di polizia e Stato e si fa un’analisi caso per caso su dove si è mancato, dove c’è stato il problema e come lo si può risolvere, arrivando in questo modo ad avere una mappatura dettagliata, da noi mancano i dati per conoscere il fenomeno e affrontarlo – se non lo si conosce non c’è bisogno di parlarne – e manca una formazione sulle forme di violenza, in particolare su quelle più nascoste come quelle economica e psicologica» – non a caso una sentenza della Corte di Cassazione del 2022 ha equiparato la violenza economica a quella fisica per gli effetti duraturi e di restrizione dei diritti umani.

Il punto, per Segre, è che «ci vuole il coraggio di dare un nome alle cose, di fare le leggi giuste come fanno gli altri Stati. Non si possono impiegare anni a discutere su cosa si può e si deve fare su un fenomeno del genere. Ci vuole il coraggio della politica, di una politica lungimirante ed edotta del problema. Noi abbiamo ancora una sinistra e una destra ideologiche, invece di essere unite su una problematica che riguarda i diritti umani. Grazie alle nuove norme sulla parità di genere gli spagnoli in dieci anni hanno aumentato natalità e partecipazione lavorativa mentre in Italia, dove le donne sono la più grande maggioranza di popolazione discriminata, qualche segnale c’è ma siamo ancora fermi».

«Un segnale dal governo è arrivato di recente con l’approvazione della seconda tappa del Codice Rosso e c’è un disegno di legge dello scorso giugno sulle “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle Donne e della violenza domestica” presso il ministero della Giustizia, frutto di un lavoro tra Pari Opportunità, Giustizia e Interno che è stato assegnato alla II Commissione Giustizia lo scorso 4 Agosto con rito “accelerato”. Vedere i tre Ministeri cooperare per un fine comune è un ottimo segnale e speriamo l’inizio di un impianto normativo che si sostanzi in un approccio sistemico sostenuto da tutte le forze politiche del Paese», sottolinea.

«Stiamo mettendo in campo una nuova iniziativa sui vari tipi di violenza per offrire uno strumento utile a tutti gli operatori sociali perché insieme si possa creare un argine in termini di prevenzione. Creare delle reti sinergiche tra terzo settore, stato e istituzioni è l’unica maniera di vincere questa battaglia. Altre le priorità saranno da rendere operative anche osservando che in altri Paesi europei, e dalla Gran Bretagna al Canada, hanno avuto successo iniziative come la creazione di Tribunali specializzati, l’intensificazione delle campagne di sensibilizzazione e il coinvolgimento in una collaborazione fattiva di tutti gli ordini scolastici. Su altri aspetti come ludopatie digitali e azioni degli influencer purtroppo mancano ancora i riferimenti normativi. Stiamo cercando di smuovere le acque, ma con grande lentezza. Questo è il problema principale».

Prevenire è meglio che curare
A smuovere le acque negli ultimi anni ci è riuscito invece chi ha lavorato sul campo dedicandosi in prima persona a contrastare il fenomeno, come il questore di Savona, Alessandra Simone, ideatrice del Protocollo Zeus e del protocollo Eva, il modello operativo utilizzato dagli operatori di Polizia nel primo intervento in caso di maltrattamenti in famiglia, oggi adottati dalla Polizia di Stato a livello nazionale. Nel corso della sua carriera, Simone si è distinta per il suo impegno sul fronte del contrasto della violenza alle donne e degli abusi ai minori, operando sia nel campo della repressione che della prevenzione dei maltrattamenti in famiglia e del cyberbullismo.

«Il pronto intervento sta funzionando», spiega a TPI, ma «il problema dei codici rossi è che dietro c’è un fenomeno sommerso, e se non viene segnalato può rimanere tale fino a esplodere nel più efferato degli atti, il femminicidio. In Italia abbiamo uno strumento di prevenzione che tutta l’Europa ci invidia, ovvero l’ammonimento del questore, che se usato bene – associato al protocollo Zeus – è unico nel suo genere. Questo strumento viene utilizzato nel momento iniziale del cosiddetto “ciclo della violenza”, soprattutto nei casi che partono dalle liti in famiglia».

In Italia l’80% di questi casi riguarda i partner, gli ex o i familiari. L’ammonimento interviene nella fase iniziale, cioè quando il maltrattante comincia quel percorso che pian piano diventa purtroppo un crescendo rossiniano di atti sempre più efferati e di comportamenti sempre più crudeli. In quel momento, il questore interviene ammonendo di non proseguire più con queste condotte perché in caso contrario ci saranno gravi conseguenze.

Dal 2018, il protocollo Zeus prevede che il soggetto ammonito venga invitato a seguire un percorso di trattamento in un centro specializzato per la mediazione – «non terapeutico», fa notare Simone, «perché ci troviamo di fronte a un problema culturale, patriarcale e sessista, non a persone “fuori di testa”» – con l’obiettivo di renderlo consapevole del disvalore sociale e penale delle sue condotte. Il percorso è gratuito e chi lo intraprende viene seguito dalle forze dell’ordine, che ogni due mesi fissano un appuntamento per fare il punto della situazione e rivalutare il caso. Il percorso non è obbligatorio ma le statistiche dimostrano che nell’80% dei casi, pur non essendo obbligati, questi soggetti si sottopongono al percorso indicato.

Per il questore Simone infatti, «il problema è la reiterazione della condotta. Ammettiamo di salvare una donna da quel percorso, se non agiamo anche sul maltrattante, rivolgerà le sue attenzioni a un’altra donna. Per chiudere il cerchio bisogna studiare i maltrattanti».

Uno strumento utile
Oggi l’ammonimento è valido solo per i reati spia e le percosse, ma l’auspicio del questore è che venga esteso a tutte quelle ipotesi – minacce, abusi psicologici – che fanno parte della violenza familiare e che al momento non è possibile perseguire con questo strumento di prevenzione efficace. «Ricordiamoci che la violenza psicologica è subdola ma è particolarmente incisiva, può provocare effetti dannosi quanto uno schiaffo.

Nel momento in cui il questore può intervenire per una minaccia abbiamo già uno strumento in più anche sulla violenza psicologica. Ciò di cui abbiamo bisogno è la pari dignità con le altre forme di violenza – fisica, economica, sessuale – come previsto dalla Convenzione di Istanbul».

Il protocollo Zeus nasce dopo anni di attività nella squadra mobile di Milano dove Simone si occupava di violenza sessuale e abuso di minori. «Quando arrivavamo purtroppo non c’era più niente da fare e mi sono resa conto che questa cronaca di morti annunciate non faceva bene a nessuno. Gli operatori di polizia non sono contenti di compiere quegli arresti perché arrestare un maltrattante è il fallimento del sistema, di tutti gli attori della rete. Molto spesso inoltre i maltrattanti si suicidano, noi dobbiamo arrivare prima. Se un uomo si toglie la vita è consapevole del disvalore di quello che sta facendo. Bisogna incidere con strumenti di prevenzione».

Dopo aver diretto la divisione anticrimine della questura di Milano, è passata dalla repressione alla prevenzione dei reati e ha deciso di sfruttare lo strumento legislativo dell’ammonimento – nato nel 2009 per lo stalking e sviluppatosi nel 2013 anche per gli atti di violenza domestica – intuendo che la soluzione migliore fosse associarlo a un percorso di recupero del soggetto ammonito, perché «nel momento iniziale del ciclo di violenza», spiega, «i soggetti possono essere recuperati e abbiamo visto che i soggetti ammoniti e mandati al trattamento con il protocollo Zeus replicano di meno; la recidiva è diminuita dal 20% al 10% grazie al protocollo».

Ma la strage continua
Tuttavia la sfiducia nel sistema giudiziario continua a mietere vittime. Su 21mila donne che ogni anno si rivolgono ai centri antiviolenza in Italia solo il 27% denuncia. «Il problema della formazione e della specializzazione non è solo all’interno delle forze dell’ordine e riguarda sicuramente anche la magistratura requirente e giudicante, ma il passo in avanti che dobbiamo fare è sulla formazione e specializzazione di tutta la rete. Non possiamo più dare la pacca sulla spalla alle donne con problematiche familiari e dirgli “vai a casa, fai pace”. È un problema che va affrontato seriamente e con competenza allertando tutti gli attori della rete: i centri antiviolenza, pronto soccorsi, forze dell’ordine, magistratura, sentenza, pubblici ministeri. Tutti devono essere formati e conoscere sotto il profilo tecnico della violenza di genere», rimarca il questore.

Come ribadito da Segre, anche Simone sostiene che «occorre investire nell’istruzione, a partire dall’educazione nelle scuole perché la disparità di genere è anzitutto un fattore culturale». Ma quanto ci vorrà prima che la cultura cambi? «Qui entrano in gioco la famiglia e la scuola», conclude. «Tutto deve partire da lì, altrimenti ci sarà sempre una cultura che vede lo stereotipo dell’uomo oppressivo, narcisista, dominatore e possessivo contro la donna fragile debole e sottomessa. La parità di genere dev’essere la naturale conclusione di questo percorso».

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