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“Vi spiego come le fragilità degli adulti provocano ansia nei giovani”: intervista allo psichiatra Lancini

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Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro e docente di Psicologia all’Università Milano-Bicocca

"Vietare i cellulari non serve a niente. La sera a tavola dovremmo chiedere ai nostri giovani come stanno, se si sentono tristi, se si vedono brutti". Intervista al professor Lancini, presidente della Fondazione Minotauro

Professor Lancini, un adolescente su 10 fa uso di psicofarmaci, uno su 7 convive con un disturbo mentale, uno su 3 soffre di ansia. Abbiamo davanti una generazione che sta male?
«Certamente negli ultimi dieci-quindici anni sempre più spesso adolescenti e giovani esprimono un forte disagio sotto forma di ansia generalizzata e gesti autolesivi, dal disturbo della condotta alimentare tra le femmine al ritiro sociale tra i maschi, meglio noto come il fenomeno degli “hikikomori”. E si nota anche un aumento dei pensieri e dei tentativi di suicidio».

Da dove nasce questo disagio?
«La pandemia ha portato molti adulti a prestare più attenzione ai ragazzi. E li ha portati a concludere che il periodo del Covid li abbia fatti stare peggio. Ma io penso che la pandemia abbia solo esacerbato un disagio e una sofferenza che erano pre-esistenti».

Quali sono le frasi ricorrenti che sente ripetere ai suoi giovani pazienti?
«In questi ultimi anni le frasi che abbiamo sentito pronunciare più spesso hanno riguardato la paura del fallimento e l’assenza di prospettive. Un’espressione ricorrente, potrei dire, è “C’ho l’ansia”. Ma oggi la situazione è diversa: non vediamo più la famosa ansia da prestazione, bensì un’ansia generalizzata che deriva dalle fragilità degli adulti».

Cosa intende per fragilità degli adulti?
«Oggi noi adulti chiediamo ai ragazzi di crescere essendo loro stessi, ma a modo nostro. È quella che io chiamo la società del post-narcisismo. Così i giovani, quando arriva l’adolescenza, si ritrovano in una profonda crisi di identità, perché fino a quel momento si sono impegnati più a tenere a bada le fragilità dei loro genitori e dei loro insegnanti, anziché a cercare di capire chi sono loro stessi. E in quel momento hanno un crollo: sentono di non avere una propria identità».

Cos’è la società del post-narcisismo?
«Negli ultimi anni abbiamo sempre letto la sofferenza adolescenziale in un’ottica narcisistica: nella società narcisista il giovane soffre il bisogno di mostrarsi all’altezza di aspettative ideali di successo. La pandemia invece ha tolto il velo a una nuova realtà: la società del post-narcisismo, ovvero la società della dissociazione, dell’estremizzazione di se stessi, che non si limita a chiedere a bambini e adolescenti di nascere e crescere secondo determinate aspettative, ma iper-idealizza il Sé, fino a chiedere alle nuove generazioni di crescere secondo il mandato paradossale: “Sii te stesso a modo mio».

I giovani di oggi sono diversi da quelli di ieri?
«Nell’adolescenza i compiti evolutivi sono sempre gli stessi in qualsiasi epoca storica e in qualsiasi luogo del mondo. I processi sono sempre quelli: doversi rendere autonomi dalla famiglia, accettare un corpo che cambia… Allo stesso tempo, però, i giovani di ogni generazione e contesto sono diversi. Negli ultimi anni, ad esempio, non esiste più la trasgressione nell’adolescenza».

Non saranno improvvisamente diventati tutti conformisti…
«Ma no! Il fatto è che l’adolescenza era l’età della trasgressione quando si cresceva in una società normativa e sessuofobica. In quel contesto, l’arrivo dell’adolescenza rappresentava la necessità di destituire il valore degli adulti e le norme che ti avevano soggiogato: c’era un’opposizione. Oggi non è più così. Pensi al consumo di cannabinoidi: qualche decennio fa aveva una valenza trasgressiva, oggi viene usato per lenire un dolore, è un’anti-noia, un’anti-tristezza. Eppure, ahimè, ancora oggi molte campagne di prevenzione contro le droghe si basano su vecchi stereotipi…».

La società intorno ai giovani è cambiata e quindi anche loro sono cambiati: è così?
«È ovvio. Ai tempi di mia nonna l’identità femminile coincideva con la maternità, oggi è molto diverso. Oggi per la prima volta nella storia dell’umanità non c’è più la necessità di avere una relazione sessuale per avere un figlio. Immagini che impatto può avere questo sulla mente di nuove generazioni. Questo cambia radicalmente il modo di intendere la propria identità! Non a caso sta sparendo la sessualità, c’è una recessione senza precedenti».

E Internet, i social network, i videogiochi, hanno un ruolo in tutto questo?
«Mentre tutto intorno è cambiato in nome di Internet, l’ultimo posto dove non si può usare Internet è la scuola, dove anzi vietano di usare il cellulare. Questo dà l’idea di una fragilità adulta senza precedenti. Ci sarebbe da ridere e invece c’è da piangere».

Pensa sia sbagliato vietare i cellulari a scuola?
«È da vent’anni che sento fare questa proposta. Non solo non serve a niente, ma la cosa più incredibile è che certi adulti continuano a dire che il cellulare va vietato a scuola ma loro non se ne privano. Perché non iniziano loro a dare il buon esempio? La verità è che se la prendono con i cellulari e con Internet per spostare l’attenzione dal vero problema, che – ripeto – sta nelle loro fragilità di adulti».

L’obiezione è: con i cellulari in classe gli studenti copiano facilmente…
«Anche ai miei tempi le ricerche si facevano copiando dalle enciclopedie. È semplicemente ridicolo fare le prove alla maturità senza Internet».

Mi sembra di capire che lei non concorda con chi afferma che oggi per i giovani esiste solo la realtà virtuale…
«Non esiste più nessuna – ripeto nes-su-na! – distinzione tra vita reale e vita virtuale. Sarebbe ora di prenderne atto».

Come dovrebbero comportarsi gli adulti di fronte al disagio psicologico degli adolescenti?
«Dovrebbero mettere in atto un processo semplicissimo: chiedersi chi è l’altro. Smetterla di dire che i figli e gli studenti sono tutti uguali, perché sono tutti diversi, e chiedersi chi è l’altro, di che tipo di papà, mamma, insegnante ha bisogno: figli diversi meritano genitori e insegnanti diversi. La sera a tavola, invece di vietare il cellulare, si dovrebbe chiedere ai figli come va. Ci sono ragazzi che hanno pensieri suicidi e non lo dicono ai genitori perché questi sono troppo fragili per ascoltarlo. Ma gli adulti preferiscono spegnere un cellulare anziché chiedere ai propri figli se si sentono tristi, se si vedono brutti, se pensano al suicidio».

Ecco, i suicidi: i casi nelle scuole e nelle università sono in aumento…
«Da vent’anni diciamo che questo fenomeno andrebbe affrontato nelle scuole: abbasserebbe i fattori di rischio. Chissà che, a forza di suicidi, prima o poi ci arriveremo».

Il bullismo c’entra qualcosa con questo malessere diffuso nei ragazzi?
«Guardi, oggi viene chiamato bullismo qualcosa che bullismo non è. Se un’insegnante viene presa a pallinate dagli studenti o se un clochard viene aggredito da un gruppo di ragazzi, si parla di bullism. Ma quella è un’altra cosa: si chiama violenza. Il bullismo è una scienza psicologica studiata da molto tempo con dei meccanismi ben precisi: ad esempio si tratta di una dinamica tra pari. Quando sento dire che Internet ha reso più violenti i ragazzi, mi domando se chi lo dice ha mai frequentato le scuole, i cortili o le campagna degli anni Settanta e Ottanta… Semmai, mi faccia dire un’ultima cosa».

Prego.
«La scuola diventa competitiva dopo una settimana dal primo anno delle primarie. Poi gli insegnanti convocano i genitori e dicono: “I vostri figli sono tutti competitivi”. Scommetto che diranno che è colpa di Internet… La verità è che dovremmo ringraziarli i ragazzi».

Ringraziarli per cosa?
«Pur di non angosciare i genitori, si sono chiusi in casa e fanno su Internet quello che noi facevamo nei cortili. Abbiamo generazioni che avrebbero tutto il diritto di fare la rivoluzione: altro che il ‘68 o il ‘77… Diventeranno più poveri, vedono i mari plastificati, una guerra dopo una pandemia… E intanto da quindici vengono tagliati i fondi alle neuropsichiatrie pubbliche. E quelle private hanno in carico ragazzi che pensano di togliersi la vita o smettono di mangiare o si ritirano dalla vita sociale».

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