Dalle grande dimissioni alla fuga dallo streaming: cosa sta succedendo a Netflix e perché non vogliamo più acquistare abbonamenti
Negli Stati Uniti l’hanno già battezzata “streaming fatigue“, in Italia qualcuno l’ha chiamata la “Grande disdetta”, quel fenomeno per cui molti utenti decidono di disdire gli abbonamenti perché angosciati dall’enorme quantità di servizi a cui hanno giurato fedeltà. Da Netflix ad Amazon Prime, da Disney Plus a Hulu, sono tantissime le piattaforme che offrono contenuti da guardare sul divano, magari in modalità “binge” (che significa “abbuffarsi”) a cui è possibile abbonarsi, ma la loro popolarità potrebbe essere in crisi. Coloro che spendono decine di euro al mese per non perdersi nemmeno una nuova uscita finiscono poi per non sapere cosa guardare, perché non sanno come barcamenarsi nell’offerta e si sentono travolti dalla libertà di scelta. Con buona pace di Adam Smith and co.
I dati disponibili non sono ancora molti, ma a svelare la tendenza degli utenti a non acquistare o rinnovare più abbonamenti è stato il record negativo registrato da Netflix, che ad aprile scorso ha ammesso senza mezzi termini un crollo sorprendente nel numero di iscritti: 200mila in meno del previsto nel primo trimestre del 2022 e un trend che, secondo l’azienda, è destinato a crescere. Tanto che il colosso dello streaming ha anche subito una perdita di oltre il 20 per cento di azioni in borsa. Tra le cause la società ha indicato la condivisione delle password con troppi abbonati e la crescente concorrenza.
Se infatti nel 2012, quando Netflix ha lanciato House of Cards, il colosso dell’home entertainment era come un’isola nel deserto, ora quell’isola (che pure gode ancora di 221.64 abbonati in oltre 190 Paesi) è diventata parte di un popoloso arcipelago, e i concorrenti non sono solo le piattaforme gemelle come Amazon Prime video. Sono le televisioni stesse a offrire anche in streaming i contenuti che prima venivano trasmessi solo in diretta: basti pensare a RaiPlay o MediasetPlay in Italia o a Hbo Max negli Stati Uniti. Il lancio nel 2020 di quest’ultima piattaforma, di proprietà della Warner Brothers, è stato particolarmente sconveniente per Netflix, perché il colosso della produzione americana detiene i diritti di moltissime serie di successo come Friends o Game of Thrones.
Con l’arrivo di Hbo Max, Warner Bros ha deciso di affidare i suoi prodotti di punta al proprio servizio di streaming e di non rinnovare la licenza a Netflix, che con Friends poteva contare su un pubblico sicuro e visualizzazioni da record. Gli amanti di Monica, Chandler, Phoebe, Joy, Ross e Rachel sono stati così costretti a emigrare. Altre migrazioni sono avvenute poi verso le piattaforme nate a livello regionale. Come fa notare un’analisi di “The Conversation“, Netflix e gli altri servizi di streaming disponibili in tutto il mondo devono competere anche con piattaforme nazionali, come Stan in Australia o Bim in Messico, Viaplay in Europa del Nord o Viu in Asia: tutti servizi che godono di relazioni pre-esistenti con il pubblico, nate e cresciute nell’ecosistema dei media tradizionali. Viaplay in Svezia era una televisione satellitare, mentre l’australiana Stan è stata lanciata da una rete di tv locali. La concorrenza e la scelta aumentano così non solo su scala globale, ma anche locale.
E per vincere la sfida produrre contenuti di alta qualità sembra non bastare. Il crollo del colosso dello streaming si è verificato nonostante sulla piattaforma siano disponibili classici del cinema, documentari, stand up comedy o pellicole prodotte appositamente da Netflix per restare su Netflix da registi di successo come Martin Scorsese (the Irish Man) o Paolo Sorrentino (È stata la Mano di Dio), fino ad arrivare a film recentemente premiati dall’Academy e acclamati dal pubblico come Don’t Look Up e The Age of the Dog.
Secondo Måns Ulvestam and Karl Rosander, i fondatori di una piattaforma di podcast svedese, Sesamy, che rende disponibili i contenuti singolarmente e senza necessità di abbonarsi all’intero servizio, è il modello stesso dell’abbonamento a non andare più a genio al pubblico, che lo percepisce come una fregatura. Secondo Ulvestam per i clienti abbonarsi a un servizio è come iscriversi in palestra: una volta comprato l’abbonamento dimentichiamo di disdirlo anche se ci alleniamo a malapena una volta al mese. E anche quando ci ricordiamo di farlo, annullare l’iscrizione si rivela un percorso a ostacoli. Ed infondo è anche su questo che alcune palestre fondano la propria fortuna. “Pensiamo che gli abbonamenti siano solo delle truffe”, ha osservato Rosander.
Ma un recente report della società che misura l’audience televisivo, la Nielsen Media Research, suggerisce invece che il problema non sia il modello di abbonamento ma, appunto, la “streaming fatigue“, e cioè l’impatto negativo che l’alto numero di servizi di streaming ha sugli utenti, i quali non sanno cosa scegliere tra tutte le serie, le tv e i programmi potenzialmente disponibili e chiedono che la propria esperienza sia più semplice e immediata. Significa che anche se un cliente decidesse di disdire tutti i suoi abbonamenti, se sapesse di poter comunque scegliere tra tante opzioni “à la carte”, comprando il singolo prodotto senza abbonarsi, potrebbe essere soggetto alla stessa forma di angoscia generata dalla scelta quasi illimitata tra contenuti.
“L‘industria dello streaming sta attraversando una nuova fase, basata sulle tendenze che abbiamo osservato negli ultimi anni – ha dichiarato il vicepresidente di Nelson Media Research, Brian Fuhrer – Siamo passati dall’infanzia all’adolescenza, con tutta la complessità che uno si aspetta a quell’età”. Ma forse non sbaglia chi equipara il fenomeno a quello delle Grandi Dimissioni: la tendenza a dimettersi in massa dal proprio lavoro esplosa durante gli anni di pandemia, in cui molte persone hanno messo in discussione stili di vita prima considerati immutabili e, tutto sommato, accettabili. La “Grande disdetta” potrebbe rivelarsi qualcosa di simile e riguardare la riflessione più ampia sulla vita che tanti stanno compiendo, attraversati dalla voglia di coltivare relazioni di qualità, vivere in comunità più ristrette e vicino ai propri cari, lavorare meno e riempire in modo soddisfacente le proprie giornate. Un ripensamento che riguarda indubbiamente anche la qualità del tempo libero: dopo mesi chiusi a fare “binge watching” sul divano, è ora di uscire di casa.