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Home » Esteri

Le studentesse giapponesi che si prostituiscono in uniforme scolastica

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Il fenomeno si chiama Joshi Kosei: ragazze spesso minorenni passano dall'essere accompagnatrici di uomini tra i 30 e i 50 anni di età a prostitute inconsapevoli

Una passeggiata oppure qualcosa da bere al bar. Apparentemente è quello che cercano gli uomini di mezza età giapponesi dalle studentesse liceali. Ma spesso questa abitudine supera i limiti e sfocia nella prostituzione minorile. 

S&D

In inglese il fenomeno si chiama “high school dating”, un’espressione che di solito non viene associata a nulla di negativo. In giapponese la sigla utilizzata per identificare la pratica è JK, Joshi kosei, che letteralmente significa “ragazza del liceo”.

In realtà lo scambio di denaro tra adolescenti che indossano le uniformi scolastiche e uomini maturi in cambio di prestazioni di diverso tipo sembra essere una pericolosa tentazione per le ragazze più vulnerabili e in cerca di un’entrata economica.

Gli uomini cercano giovani accompagnatrici soprattutto per noia. “Mi sono stancato dei soliti locali con donne di una certa età”, dice un testimone al Washington Post. Gli incontri non sono affatto difficili e avvengono in bar che proprio per evitare problemi chiudono al massimo alle 10 di sera. Le ragazze servono i clienti indossando le loro uniformi che per gli uomini vengono considerate fonte di attrazione.

Spesso questo tipo di appuntamenti può diventare qualcosa di diverso. Le ragazze possono essere messe in mostra dietro una vetrina e muoversi secondo le richieste dei clienti, creando origami con la carta mentre posizionano le gambe in modo che si veda la biancheria intima. Un uomo può arrivare a pagare 60 dollari per uno show di 30 minuti con una ragazza scelta secondo i suoi gusti. 

Le ragazze possono diventare delle guide turistiche oppure finire a letto con questi uomini molto più grandi di loro in cambio di denaro. Si chiamano “appuntamenti retribuiti”.

“Le uniformi scolastiche rappresentano un tabù molto intrigante per gli uomini”, spiega Kazue Muta, professoressa di sociologia e di studi di genere all’università di Osaka. “Il Giappone è una società patriarcale e ha questa mentalità in base alla quale ciò che è giovane e innocente ha più valore ed è più attraente”. 

Il limite minimo di età per esprimere il consenso sessuale è fissato a 13 anni nel paese del Sol Levante, anche se in alcune zone arriva a 18. La pratica del Jk fa sorgere preoccupazioni riguardo al traffico sessuale dei minori anche dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti.

Ci sono associazioni come Bond Project che cercano di convincere le ragazze a non frequentare i luoghi in cui possono essere adescate. La richiesta di questo servizio, però, è molto alta.

Il Washington Post è riuscito a parlare con uno degli uomini che gestisce questo business. “Molti giapponesi trovano qualcosa di erotico nell’uniforme e sono delusi se le ragazze non frequentano la scuola”, racconta l’uomo. Secondo lui il problema dello sfruttamento non esiste perché le giovani scelgono di fare questo lavoro e le domande abbondano quando comincia la ricerca di nuovo personale.

Nelle parole di chi questo lavoro ha scelto di farlo traspare solitudine e insoddisfazione. Mio, 17 anni, ha cominciato con un rapporto sessuale in cambio di 30 dollari. “Quando sono sola a casa di sera, mi sento sola e voglio essere desiderata da qualcuno. È allora che lo faccio”, dice. 

Yumeno Nito gestisce un gruppo di supporto per queste ragazze e raccoglie anche storie di violenze subite da parte di uomini che vogliono trasformarle in merce di scambio. Il contrasto al fenomeno deve passare anche attraverso un cambio di mentalità che tende ad attribuire la responsabilità anche alle ragazze, senza criminalizzare gli uomini.

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