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Home » Esteri

Il commercio dei neonati venduti dai trafficanti di esseri umani in Malesia

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Il prezzo dei bambini cambia a seconda delle caratteristiche fisiche: un maschio con la pelle chiara vale di più, mentre una femmina con la carnagione scura costa meno

“Maschio, tre chili di peso, 2000 dollari”. Un breve messaggio, diffuso prevalentemente online che accompagna la foto di un neonato pubblicizzato e pronto per essere venduto al miglior offerente.

S&D

In Malesia, decine di neonati hanno il destino segnato e di messaggi simili ne vengono diffusi tanti. I bambini in fasce rappresentano una merce con un valore in denaro. La Malesia è il crocevia del traffico di neonati. 

Qui i potenziali acquirenti possono scegliere il proprio bimbo in base al sesso, al colore della pelle e alla razza. Molti sono acquistati da coppie disperate, che non riescono a mettere al mondo un figlio naturale, ma la maggior parte è venduta ai trafficanti che li trasformano in schiavi sessuali o mendicanti. 

A scoprire questo traffico illecito è stata un’inchiesta durata quattro mesi e condotta da un team di giornalisti dell’emittente araba Al Jazeera. In Malesia questo fenomeno illegale ha il sostegno di funzionari governativi e medici corrotti.

Il documentario intitolato Babies sale in Malaysia mostra come nel paese sia piuttosto facile acquistare un bambino. Gli acquirenti interessati sono contattati online. A loro si offre l’opportunità di sfogliare cataloghi, dove sono inserite le descrizioni dettagliate delle donne incinte: le loro caratteristiche fisiche e il periodo di gestazione. 

“L’adozione legale in Malesia può richiedere anni e spesso si va incontro a un iter complesso. Questo spinge molto persone a rivolgersi ai trafficanti. Poi pagano medici e funzionari governativi per falsificare i documenti di nascita, in modo che nessuno sappia che il bambino non è realmente figlio loro”, ha raccontato uno dei giornalisti che ha realizzato l’inchiesta. 

Si tratta di un vero e proprio supermercato: al posto dei generi di prima necessità ci sono i bambini appena nati. Il loro prezzo varia a seconda della razza, del colore della pelle, del sesso e del peso: alcuni arrivano a costare 1500 dollari, altri addirittura 2500 dollari.

I bambini maschi con la pelle chiara valgono di più, mentre le bambine con la pelle scura costano di meno. Ancora di più valgono i neonati che presentano un mix di caratteristiche fisiche. 

La fitta rete non è composta solo da bande criminali. Medici forniscono alle coppie i documenti di nascita falsificati, con l’aiuto dei funzionari che lavorano nel dipartimento dell’anagrafe nazionale. 

La domanda di bambini è in forte crescita nella nazione del sudest asiatico e ciò ha spinto molte donne che si prostituiscono a vendere i propri figli, invece di ricorrere all’aborto. “Alcuni bambini possono realmente trovare delle famiglie normali, in grado di garantire loro un futuro e una vita più agiata, ma la maggior parte finisce nella mani sbagliate, di pedofili senza scrupoli o di trafficanti di esseri umani”. 

Un altro fattore che permette il proliferare di questo fenomeno è l’assenza quasi totale di controlli adeguati sui potenziali compratori. Non sono stilati profili e nessuno si preoccupa di realizzare valutazioni psicologiche sui futuri genitori adottivi, al fine di stabilire se siano adeguati o meno per ricoprire questo ruolo. 

La casistica delle donne che decidono di mettere in vendita i propri bambini è ampia. Alcune sono povere lavoratrici migranti che, per legge, non sono autorizzare a far nascere i loro figli all’interno del paese. Altre si prostituiscono e sono costrette a rinunciare alla gravidanza per evitare lo stigma sociale associato di avere una relazione fuori dal matrimonio. 

Per quanto riguarda gli acquirenti, nella maggior parte dei casi si tratta di coppie senza figli, che non riescono a concepirli per vie naturali e decidono per l’adozione. Ma quando si scontrano con le difficoltà di questo processo, allora optano per le vie illegali. Tuttavia, gli attivisti locali affermano che molti acquisti hanno scopi più sinistri. 

L’esca per attirare potenziali compratori è gettata attraverso i siti web e sui social network. Qui sono diffusi appelli in cui si chiede un aiuto concreto per i bambini più sfortunati. Dietro i messaggi si celano in realtà i venditori. 

Se un acquirente abbocca, allora è invitato a versare denaro per le spese mediche del bambino e a pagare la cosiddetta “tassa di consolazione” alla madre naturale. Non accade mai che quest’ultima possa mettersi poi alla ricerca del proprio figlio; è inoltre impossibile sapere dove questi bambini siano venduti in Malesia. 

Due storie a confronto

Quando Siti (nome di fantasia) ha scoperto di essere incinta, era una giovane studentessa universitaria nubile. In un paese a maggioranza musulmana non è ben visto concepire un figlio al di fuori del matrimonio. Secondo la sharia, è un reato. La pena consiste nella detenzione fino a tre anni, oppure in frustate e multe. 

La famiglia della giovane decise di mandarla in una struttura di accoglienza per ragazze madri, alla periferia della capitale Kuala Lumpur, fino a quando non avrebbe partorito. 

Siti voleva disperatamente tenere il suo bambino, ma i genitori l’avevano costretta a firmare i documenti per l’adozione quattro giorni dopo la nascita. “Ho tenuto il mio bambino vicino a me e mi sono chiesta come avrei fatto a vivere senza di lui”, ha raccontato la giovane. 

Appena la madre firmò, alcune persone si avvicinarono e consegnarono una busta piena di denaro ai gestori della struttura. “Una signora è venuta e mi ha portato via il bambino”, ha ricordato Siti. 

“Ho pianto per ore. Sentivo che stavo perdendo una parte essenziale della mia vita”. Il centro per ragazze madri è stata chiuso su ordine del governo nel 2012, non per traffico illecito di neonati, ma perché risultò senza licenza. 

Tuttavia, fatta eccezione per Siti, non è stato difficile per i giornalisti trovare una donna che voleva vendere il suo bambino non ancora nato. Si trattava di una filippina incinta da sei mesi, che aveva offerto il suo bambino per duemila dollari, più il costo dei check up mensili e della tassa di consegna del neonato una volta nato. 

La donna ha raccontato di aver lavorato a Kuala Lumpur, ma una volta rimasta incinta il suo visto era scaduto. I lavoratori migranti non sono autorizzati a portare i bambini in Malesia, e suo figlio sarebbe stato privo di cittadinanza, se fosse nato entro i confini nazionali. 

Così come è semplice trovare donne disposte a vendere i propri bambini, allo stesso modo è piuttosto facile rintracciare medici che acconsentono a questa pratica fornendo documenti falsi, affinché i potenziali acquirenti possano essere registrati come genitori biologici. 

Ovviamente questo ha un costo altissimo. Un medico che offre un servizio simile può guadagnare oltre 5mila dollari per far nascere un bambino e per fornire un documento falso. 

“I bambini cinesi sono i più costosi e possono raggiungere anche i 7500 dollari di prezzo”, ha precisato un medico intervistato da Al Jazeera

A questo fenomeno se ne somma un altro: l’aumento di donne, in prevalenza prostitute, che decidono di tenere i loro bambini concepiti con clienti occasionali e non abortiscono. Molte di loro restano incinte in modo deliberato, mentre altre sono costrette dai loro protettori. 

“Succede che lei fornisce il bambino, che viene immediatamente rivenduto, contribuendo a far arricchire ulteriormente i trafficanti di esseri umani”, ha precisato una esponente di un’organizzazione non governativa malese. 

Alcuni di questi bambini finiscono con famiglie capaci di dare loro un futuro, ma tanti altri vengono acquistati solo per sottoporli a sfruttamento e abusi. 

“Questi neonati sono presi da bande criminali e quando raggiungono l’età di otto anni sono sfruttati sessualmente o finiscono nelle mani dei pedofili”, ha raccontato ancora l’attivista. 

Finora anche le autorità locali non hanno fatto molto per fermare questo commercio illecito. “La mia rabbia è contro le donne malesi, il nostro stato, le nostre autorità e di quest’atteggiamento menefreghista”, ha detto ancora la donna. 

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