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Calcio d’Arabia, gli acquisti miliardari non bastano: il campionato saudita ha grandi ambizioni ma tante incognite

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Credit: AP Photo

In principio fu Cristiano Ronaldo. Poi Brozovic, Milinkovic-Savic, Kanté, Henderson. E persino Benzema. Da anni, Riad si propone come potenza emergente. Ora anche il suo torneo calcistico vuole competere con l’Europa. Ma i precedenti nel resto del mondo non sono incoraggianti

Quando lo scorso gennaio Cristiano Ronaldo aveva firmato per la formazione saudita dell’Al-Nassr sembrava un caso isolato, simile a tanti già visti in passato di giocatori che, superati gli anni migliori della carriera, decidono di trasferirsi in qualche campionato lontano in cerca di visibilità, ben retribuiti da stipendi che altrove difficilmente avrebbero trovato. La sessione estiva di calciomercato, tuttavia, ha mostrato che il caso di Cristiano Ronaldo non era isolato: gli arrivi nel campionato saudita tra gli altri di Benzema e Brozovic, Milinkovic Savic, Kanté ed Henderson, hanno mostrato che siamo di fronte a un progetto dalle ambizioni ben più strutturate.

S&D

L’Arabia Saudita da anni si sta promuovendo come Paese che sta abbandonando un’economia strettamente legata al petrolio tramite l’ambizioso piano Vision 2030, nel quale sono previsti investimenti in molti settori, compreso l’intrattenimento. Un piano che tuttavia ha portato organizzazioni come Amnesty International a parlare di sportwashing, dal momento che il Paese continua a occupare posizioni basse nelle classifiche sul rispetto dei diritti umani.

Ma al di là delle ambizioni e delle aspettative di Riad nello scacchiere internazionale, soffermiamoci su quanto sta accadendo nel suo campionato di calcio, la Saudi Professional League, competizione semisconosciuta fino a pochi mesi fa e adesso sulla bocca di tutti. Ciò cui stiamo assistendo, infatti, non è qualcosa di nuovo: ci sono diversi precedenti di campionati che hanno cercato di farsi strada trovando visibilità nel panorama calcistico internazionale, ma le caratteristiche di quanto sta avvenendo in Arabia Saudita sembrano essere differenti.

Se negli Stati Uniti negli anni Settanta alcuni nomi di primissimo piano della storia del calcio, specialmente a fine carriera, sono transitati dal Paese, se in Giappone c’è stato un grande viavai di campioni, anche in questo caso spesso a fine carriera, e in Cina c’è stato un tentativo più strutturato ma dai nomi meno altisonanti che comunque ha finito per essere messo in soffitta, in Arabia Saudita stiamo assistendo ad acquisti di grandi campioni a cifre particolarmente alte, stavolta senza cercare parametri zero a fine carriera, ma investendo seriamente in profili che potrebbero tranquillamente essere titolari nei massimi campionati mondiali ancora per diversi anni.

Un investimento che mostra una concreta volontà di costruire un campionato prestigioso, in cui lo sforzo dello Stato non è solo politico, ma anche economico. Non sono infatti facoltosi imprenditori privati ad aver messo in piedi l’operazione, come accaduto in altre situazioni, ma l’operazione è gestita principalmente da fondi pubblici, in primis da quelli del Pif, il fondo sovrano saudita, che ha preso il controllo diretto di quattro squadre, non a caso le più attive di questo mercato.

Se non basta un’estate
Questo progetto, tuttavia, per quanto abbondantemente foraggiato dal punto di vista economico, deve affrontare una serie di questioni per potersi radicare concretamente tra i massimi campionati di calcio globali. Questioni che richiedono uno sviluppo lungo diversi anni e, di conseguenza, altri finanziamenti e di cui gli organizzatori del torneo sembrano essere consapevoli. Un’inchiesta del sito sportivo The Athletic, infatti, ha rivelato che nelle idee dei sauditi c’è un piano di sette anni per rendere il campionato tra i più seguiti e prestigiosi. Tra i dieci migliori, nello specifico, come si legge sul sito della Saudi Pro League.

La prima questione di cui tenere conto, è che i nomi che leggiamo in questi giorni e diretti verso il campionato saudita, per quanto molto altisonanti, rappresentano comunque solo una piccola parte dei calciatori che prenderanno parte a quel campionato, composto in primis da carneadi d’Arabia. Vedere Benzema sfidarsi contro Cristiano Ronaldo è sicuramente accattivante, e sapere che in campo ci sono anche Brozovic e Milinkovic Savic lo è ancora di più. Ma saremmo ugualmente appassionati nel sapere che non abbiamo idea di chi siano quasi tutti gli altri giocatori in campo, i quali giocano in un campionato che fino a pochi mesi fa per noi era pressoché sconosciuto?

È infatti ragionevole pensare che i primi a essere coinvolti saranno i tifosi sauditi, non solo perché un campionato per essere prestigioso deve prima di tutto essere seguito dal pubblico locale, ma anche perché la spesa per i diritti tv è andata per il momento nettamente in direzione del mercato interno rispetto a quello estero. Ulteriore elemento che ci mostra come il percorso per rendere prestigioso un campionato non è una cosa che si risolve in pochi giorni, e il rischio è che l’attenzione suscitata dalle novità annunciate in pompa magna sia qualcosa di provvisorio destinato a sgonfiarsi senza una base solida. Soprattutto se al netto dei lautissimi ingaggi alcuni dei campioni salpati verso i lidi sauditi dovessero preferire fare marcia indietro: sono cose che solo il tempo ci saprà raccontare. Raffreddando anche i tifosi: essere appassionati di calcio non significa per forza essere appassionati in primis del proprio campionato.

C’è però un altro elemento che rischia di penalizzare il calcio saudita. Uno dei fattori che rendono più prestigioso il calcio europeo è senza dubbio la Champions League, in cui squadre che disputano campionati già di per sé seguiti e competitivi possono scontrarsi con altre squadre altrettanto prestigiose di altri Paesi. Questo, purtroppo, non può succedere nel campionato saudita, in cui le prime quattro si qualificano per l’Asian Champions League, una competizione che non gode dello stesso blasone dell’omologa europea. Se pure il campionato saudita dovesse crescere esponenzialmente, finirebbe per bistrattare una competizione continentale disputata da squadre i cui nomi spesso dicono poco a gran parte del pubblico calcistico.

C’è poi da non sottovalutare una questione di immagine e di radicamento dei nomi e delle identità delle squadre nel pubblico internazionale. In questi giorni, nelle conversazioni tra tifosi in molti si stanno semplicemente dicendo che il tale campione andrà a giocare in Arabia, che l’offerta è arrivata dai sauditi, ma raramente si menzionano i nomi delle squadre. Non sembra ci si ponga più di tanto il problema se Cristiano Ronaldo, Benzema, Brozovic, Kanté, Milinkovic Savic e compagnia cantante giocheranno insieme o in squadre diverse. Così come il grande pubblico calcistico occidentale ad oggi non è particolarmente in grado di distinguere l’Al Nassr dall’Al Hilal o dall’Al Ittihad, non ha idea di quale sia la città in cui giocano, e difficilmente ne sa riconoscere la maglia. Eccezion fatta forse per quella dell’Al Nassr, dopo che le immagini della presentazione di Cristiano Ronaldo hanno fatto il giro del mondo.

Su questo chiaramente le autorità saudite dovranno fare un lavoro che richiederà molto tempo ma in cui i loro maggiori alleati saranno proprio i calciatori per cui stanno spendendo fior di quattrini: oggi, infatti, oltre che atleti sono a tutti gli effetti influencer con un pubblico vastissimo e diffuso in tutto il mondo. Quale miglior alleato per diffondere nell’immaginario collettivo simboli, colori e consuetudini del calcio saudita?

La parentesi cinese
L’Arabia Saudita, tuttavia, non è il primo Paese a provare a promuovere il proprio campionato ad alti livelli. L’esempio più recente, e conclusosi in una sospensione dell’operazione, riguarda la Cina. Pechino, infatti, aveva visto nel calcio una notevole possibilità di sviluppo a livello sportivo e di immagine e nel 2016 aveva lanciato un ambizioso piano per trasformare il Paese in una potenza calcistica globale entro il 2050.

Il progetto cinese prevedeva obiettivi a medio e lungo termine, tra cui la creazione di decine di migliaia di scuole calcio nei primi anni che avrebbero portato a un aumento del numero di persone non solo interessate al calcio, ma anche che praticano il calcio. Fondamentale per un Paese che nonostante abbia una popolazione immensa e sia una delle maggiori potenze globali è sempre rimasto nelle retrovie per quanto riguarda sport più popolare al mondo.

Nel frattempo, le squadre cinesi hanno investito su giocatori con grande esperienza internazionale, da Oscar a Hulk passando per Paulinho e Witsel: nomi noti, ma non altisonanti come quelli che vediamo oggi protagonisti del mercato saudita. Tuttavia, col tempo l’interesse verso la Super League cinese non ha ingranato e la nazionale non ha visto una crescita di livello. Il Covid ha dato al campionato ulteriori problemi che hanno portato a mettere in congelatore gli ambiziosi progetti di Pechino: l’introduzione di un salary cap ha fermato la spesa per i nuovi giocatori, gli stadi chiusi hanno frenato la partecipazione dei tifosi.

Il difficile pubblico Usa
Anche negli Stati Uniti, Paese in cui il calcio ha sempre stentato a farsi strada, non sono mancati i tentativi di attirare i tifosi verso questo sport e di creare un campionato che abbia un’attenzione globale, come l’Nba di basket o l’Mlb di baseball. Alla fine degli anni Sessanta, percependo un possibile spazio per il calcio nel pubblico statunitense e canadese, venne creata la North American Football Soccer League (Nasl), che cercò di coinvolgere il pubblico nordamericano acquistando campioni di alto livello e cambiando alcune regole per renderle più simili a quelle di alcuni sport più popolari in quella parte del mondo.

Vennero così sostituiti i rigori con gli shootout, in cui non si tira direttamente dal dischetto ma si fa un’azione a tu per tu col portiere partendo dalla tre quarti campo, simili a quelli che si vedono nell’hockey. Venne ridotto lo spazio per il fuorigioco e istituito un cronometro inverso come nel basket. E vennero fatti arrivare nelle squadre americane, seppur a fine carriera, giocatori come Pelè, Cruyff, Best e Chinaglia. Inizialmente fu un successo, ma le spese crebbero altrettanto rapidamente, e gli investitori iniziarono a raffreddare il loro interesse, portando a un graduale ridimensionamento della lega fino alla sua chiusura negli anni Ottanta. L’organizzazione dei Mondiali del 1994, che noi italiani ricordiamo per la fatale finale di Pasadena, portò gradualmente a una nuova attenzione verso il calcio negli Stati Uniti e alla nascita della Major League Soccer (MLS), un nuovo campionato professionistico nordamericano, erede della Nasl, che nei primi anni portò, ancora una volta, stelle del calcio mondiale a fine carriera. Ma il calcio oltreoceano è rimasto all’ombra di altri sport.

Il caso nipponico e tutti gli altri
C’è stato poi il caso giapponese. Era il 1993 quando nel Paese del Sol Levante ebbe inizio la prima stagione di un campionato di calcio professionistico, e anche questa volta i nuovi club vollero provare ad attirare il pubblico acquistando campioni molto noti ma spesso nella fase finale della carriera. Arrivarono tra gli altri Ramon Diaz, Gary Lineker e Totò Schillaci, ed emersero giocatori interessanti, a partire da Kazu Miura, che nel 1994 con la maglia del Genoa divenne il primo calciatore giapponese della storia della Serie A. Ma all’entusiasmo iniziale seguì un calo nell’interesse per la J-League, sia negli stadi sia nell’attrattività del campionato, per quanto negli stessi anni la nazionale di calcio nipponica sia gradualmente cresciuta di livello.

Si potrebbero fare molti altri esempi, di squadre che hanno portato campioni a fine carriera in Paesi ai margini della scena calcistica, dalle avventure indiane di Materazzi e Del Piero, quest’ultimo transitato anche per l’Australia, a quelle negli Emirati e nel Qatar di Cannavaro e Batistuta. O alle spese folli di una semisconosciuta squadra del Caucaso, l’Anzhi Mahachkala, per acquistare giocatori come Roberto Carlos e Samuel Eto’o con l’obiettivo di scalare il calcio russo e non solo, ma che dopo aver ottenuto al massimo un terzo posto ha deciso un taglio dei costi che la ha riportata nella penombra.

L’ultima parola spetta agli appassionati
Questa carrellata di esempi ci fa capire che portare un campionato dai margini ai vertici del mondo del calcio non è una cosa semplice. Servono investimenti, ma bisogna anche essere pronti a portarli avanti per molti anni, perché difficilmente i risultati arrivano in tempi immediati. Con tutti i rischi del caso. In tempi rapidi si può creare facilmente interesse, ma perché questo si trasformi in passione ci vogliono tempo e costanza, o l’interesse rischia di andarsene: ciò che rende un campionato unico e prestigioso è soprattutto il seguito degli appassionati, di tifosi che si tramandano il sostegno a una squadra da generazioni. Sono sempre loro, alla fine, gli elementi decisivi che rendono il calcio lo sport più seguito del mondo e possono sancire il successo o meno di una competizione.

Cosa sarà la Saudi Pro League lo racconteranno i fatti, e non una sola sessione di mercato, e vedremo così se siamo di fronte a una realtà del futuro prossimo o a un’altra meteora.

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