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Occupy Istanbul

Immagine di copertina

La protesta del parco Gezi che sfida Erdoğan

Nel giorno della grande manifestazione degli indignados di tutta Europa, quando Roma venne messa a ferro e fuoco da alcuni che oscurarono la grande protesta civile di molti – anzi, moltissimi -, la piazza della rabbia di Istanbul era quasi deserta.

Poche decine di persone, gli emuli turchi del “15-M”, quel 15 ottobre 2011. Quasi folkloristiche per i turisti che la attraversavano.

In quella stessa piazza Taksim oggi si consuma la rivolta più dura, e più duratura, che con la battaglia ingaggiata per proteggere alberi e spazi dello storico parco Gezi difende soprattutto le radici di un quartiere e una città non disposti – o almeno, non del tutto – a cedere all’asfaltazione liberista e conservatrice del rullo politico guidato dal premier Tayyip Erdoğan.

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La cronaca della protesta, per una volta, ha superato a forza di spallate i confini (mediatici) della Turchia. Risultato, questo, soprattutto della violenza sproporzionata con cui la polizia turca ha reagito alla ribellione e all’idea di ribellione, reprimendo l’una con l’effetto di rafforzare l’altra.

I numeri sono quelli che pure (sic!) i telegiornali italiani hanno raccontato nelle ultime ore, e che mentre scrivo saranno già superati dagli eventi che insistono su questa tarda primavera di Istanbul: almeno una cinquantina di feriti (forse anche di più), alcuni gravi, e 138 fermati, mentre il caos non si placa a Beyoğlu e Beşiktaş, Şişli e Kurtuluş, Tophane e Harbiye. Praticamente, ovunque.

A chi pensa che la protesta sia confinata nel centro della città, risponde il piano di emergenza messo in atto dalle autorità – già provate nella materia – che limita gli accessi in diversi quartieri e intensifica i controlli, persino con una sorta di check-point all’attracco dei battelli provenienti dalla sponda asiatica della città che rimanda la memoria (ma per fortuna, al momento solo quella) ai tempi bui della giunta militare.

È una citta in rivolta Istanbul, oggi per il quinto giorno. All’inizio, non erano più di cinquemila a fronteggiare la polizia con catene umane e sit-in dall’aspetto più che altro simbolico.

Adesso è un tam tam incredibile che invade la rete e le strade giorno e notte (letteralmente), con le prime propaggini che sbocciano in altri centri della Turchia mentre incassa appelli alla resistenza e manifestazioni di solidarietà in decine di città nel mondo.

L’impressione è che, come tutte le grandi rivolte – e questa, per impatto emotivo e forza mediatica, certamente lo è – anche quella turca di questi giorni sia un pretesto per sfidare un’autorità che negli ultimi mesi sta forzando la mano.

Dalle misure conservatrici in campo sociale alle aperture sempre maggiori a un capitalismo predatorio, il solidissimo governo Erdoğan ha perso un po’ di smalto ed è costretto ad ammettere un “errore” da parte delle forze dell’ordine nell’uso dello spray al pepe (abbondante in questi giorni nelle strade di Istanbul, insieme a lacrimogeni e cannoni ad acqua).

Senza perdere, però, il suo piglio autoritario: “La polizia è stata lì ieri, c’è oggi e ci sarà anche domani”.

Promessa o minaccia, è la sfida a una protesta riconosciuta come politica. Forse è troppo parlare di dimissioni del governo, la Turchia è un Paese grande e complesso e – come ampiamente dimostrato in questi anni nelle urne – a maggioranza conservatore.

Eppure, l’autoritario Erdoğan rischia proprio sull’immagine, che oggi non è poco. Non è un bel segnale, per esempio, la denuncia di ritardi e limitazioni in queste ore all’uso di twitter, in un Paese non paragonabile sul piano storico, economico e politico a quelli delle primavere arabe ma che negli ultimi anni si è distinto proprio per le limitazioni alla libertà di espressione e le censure sul web.

Potrà essere #occupytaksim, #occupygezi o magari #occupyistanbul. Voi cominciate a cercare l’hashtag, adesso c’è anche la Turchia.

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