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Non dimentichiamo i musulmani di Garissa

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Nuovi atti terroristici rischiano di creare una divisone profonda fra gli appartenenti alle diverse religioni

“Il male che viene fatto ai cristiani è terribile, ma anche il male che fanno a noi musulmani non si può misurare”.

È il mattino del Venerdì Santo e Alamin, con gli occhi bassi, addolorato e mortificato, commenta così il titolo del giornale di Nairobi sulla strage di Garissa: “147 morti, 79 feriti nell’attacco al campus”.

Sono tre i musulmani appartenenti a un gruppo di venti studenti con i quali avevo programmato di incontrarmi già da qualche giorno.

Durante questo incontro, è il dolore per la brutale mattanza ad accomunare i giovani: sanno bene che gli assassini hanno selezionato i cristiani come vittime della strage, anche se tra questi non sono stati pochi i musulmani coinvolti, alcuni uccisi perfino mentre stavano pregando nella moschea.

Le foto sui giornali locali mostrano solo studenti feriti e in fuga, misericordiosamente risparmiandoci le foto dei morti, ma la precise descrizioni dei giornalisti fanno facilmente immaginare i corpi dilaniati delle pallottole, evocando la carne del Cristo morente sulla croce con immediata fisicità e crudezza.

Numerose sono le critiche che gli studenti muovono all’élite politica e sociale del Kenya, che vive nelle protette aree residenziali del Kenya come se appartenesse al satellite di un altro pianeta, troppo occupata ad accumulare potere e ricchezza.

Sono coloro che appartengono a tale gruppo ad avere accesso alle prestigiose università private di Nairobi, a discapito del ceto più povero il quale, sebbene abbia ottenuto l’accesso all’istruzione terziaria, è costretto a optare per i campus meno gettonati situati in cittadine come Garissa, una zona semi-arida e inospitale verso il confine con la Somalia.

Altre considerazioni amarissime coinvolgono poi la corruzione, che permette agli agenti del gruppo terrorista Al Shabaab di muoversi senza controlli effettivi su tutto il territorio e addirittura di infiltrarsi nelle strutture governative.

Nonostante tutto però, il sentimento che prevale è quello di partecipazione al dolore dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime. Parole durissime per gli assassini – ben lontane, bisogna dirlo, dalle parole di Cristo sulla croce – ma non una parola di accusa e neanche di presa di distanza verso i musulmani presenti e l’Islam in quanto tale.

C’è la preoccupazione che il ripetersi di atti terroristici finisca per scavare una divisone profonda e che questa possa trasformarsi in odio fra gli appartenenti alle diverse religioni.

Il rapporto tra cristiani e musulmani è un nodo cruciale per le prossime generazioni in questa parte d’Africa e dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni anche di tutti gli agenti pastorali.

Eppure non c’è ancora stata una grande riflessione comune, che ricomprenda le numerose visioni, diverse e contrastanti, presenti nel Paese. Una parte di cristiani crede addirittura che la soluzione stia nell’imposizione della propria fede, senza escludere la sopraffazione.

Qualche mese fa avevo visto lo stesso Alamin uscire dall’aula della scuola superiore dove frequentava l’ultimo anno con gli occhi pieni di lacrime di rabbia e umiliazione perché un missionario italiano, che aveva fatto una conferenza agli studenti su come affrontare responsabilmente la vita, aveva insultato pesantemente e indistintamente tutti i musulmani e la loro religione.

Visto da Nairobi il fondamentalismo islamico può vincere solo se riesce a scavare un solco di odio fra gli appartenenti alla diverse religioni.

Per questo, la nostra risposta al terrorismo non può seguire la stessa logica, ma deve tornare ai valori del Vangelo: l’amore, il dialogo, la croce e il perdono.

Deve sconfessare, come fa papa Francesco, chi usa Dio al servizio della violenza e della morte, e aprirsi al dialogo con tutte le persone di buona volontà.

Tuttavia, neppure una fede salda e la certezza della vittoria del bene sul male ci esimono dallo studiare e dal cercare di capire la storia che si sta evolvendo intorno a noi.

Da questa prospettiva, è preoccupante la mancanza di una matura riflessione su quanto sta accadendo nella grande area africana, area in rapida espansione, in cui Islam e Cristianesimo si incontrano e purtroppo spesso si scontrano.

Non basta, come fanno i vescovi di tutte le chiese cristiane keniane dopo ogni episodio di terrorismo, lanciare generici appelli di indignata condanna e rinnovare le richieste al governo di aumentare le forze di sicurezza e di dimostrare una maggiore determinazione nella lotta contro la corruzione.

Bisognerebbe favorire un’analisi delle forze coinvolte in questo momento storico e l’elaborazione di una comune riflessione su come porsi di fronte all’Islam e in genere alle altre religioni.

Senza escludere la religione tradizionale africana, come sempre il grande assente dal dibattito pubblico, ma pur sempre viva – eccome! – nella profondità dell’anima di tutti gli africani.

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