Il peso delle parole: la rivoluzione culturale contro l’obesità passa anche dal lessico
Il linguaggio medico non è neutro. Definire una persona “obesa” rischia di ridurla al suo corpo. Parlare di “fallimento” di colpevolizzare. Mentre “lotta” sa di scontro. La cura invece passa anche da una terminologia appropriata
“Say what you mean, mean what you say”: dì ciò che intendi e intendi ciò che dici. Questa frase, che suona come un richiamo alla sincerità in molti ambiti della vita, nel campo della salute è diventata il simbolo di qualcosa di molto preciso. A proporla è stato nel 2022 un gruppo di ricercatori composto da Naomi Fearon, Andrew Sudlow, Carel W. Le Roux, Dimitrj J. Pournas e Richard Welbourn, in uno studio pubblicato su Obesity, rivista della Obesity Society, per indicare un nuovo approccio: usare un linguaggio coerente con le intenzioni quando si parla di obesità e delle persone che ne sono colpite.
Termini corretti
L’obesità per anni è stata affrontata, a livello medico così come tutti gli altri ambiti, come una colpa: la persona che ne è affetta è stata ritratta come un ingordo, pigro, privo di forza di volontà che non riusciva a smettere di mangiare o a cambiare stile di vita. Con il tempo questa forma mentis è cambiata, si è arrivati a vedere l’obesità non più come una colpa individuale, ma come una malattia cronica multifattoriale, legata solo in parte allo stile di vita: un percorso avviato già alla metà del Novecento, proseguito a vari livelli istituzionali e consolidatosi soltanto negli ultimi anni, ma che non ha posto fine automaticamente alla stigmatizzazione nei confronti delle persone con obesità.
In questo senso, dobbiamo avere chiaro che il linguaggio medico non è un linguaggio neutro, e per questo se usato nel modo sbagliato rischia di prendere una strada fuorviante: pensiamo solo a quante volte è stato chiesto di evitare la metafora del paziente come “guerriero” quando deve affrontare un cancro o un’altra malattia molto grave. Qualcosa del genere riguarda anche il tema dell’obesità. Parlare di “lotta all’obesità”, dunque, diviene un concetto inappropriato, che parla di uno scontro e non dell’approccio empatico che sarebbe necessario, mentre definire una persona semplicemente come “obesa” rischia di ridurla al proprio corpo, senza considerare la complessità della sua identità. E soprattutto, parlare di “colpa”, o di “fallimento”, è qualcosa che rischia di colpevolizzare, e non di curare. E quindi, in ambito medico in primis, la “lotta” diventa “trattamento”, l’“obeso” diventa “persona con obesità”, mettendo l’identità prima della condizione, mentre il concetto di “colpa” viene messo da parte per lasciare spazio alla “cura”.
Rischio stigma
Semplici parole, qualcuno potrebbe obiettare, ma sarebbe molto approssimativo, perché non si tratta di rivoluzionare banalmente dei termini o di una deriva del “politicamente corretto”, ma di indicare un generale cambio di approccio verso l’obesità. Lo studio uscito su Obesity, ad esempio, non vuole essere una neolingua orwelliana, ma pone il problema proprio di come un linguaggio sbagliato e colpevolizzante in ambito medico non solo rischi di colpire pazienti già stigmatizzati per la loro condizione, ma in questo modo non contribuisca alla loro cura, tanto più se pensiamo che nei casi di obesità lo stigma sociale rischia spesso di pesare più della malattia stessa. Uno stigma che, come sappiamo, è ben presente: uno studio del 2021 che ha coinvolto persone provenienti da Paesi di diverse aree del mondo, infatti, ha mostrato come tra il 55 e il 61 per cento delle persone con obesità intervistate ha ricevuto forme di stigmatizzazione per via del loro peso, soprattutto da membri della propria famiglia ma con percentuali molto alte anche da parte di medici. Questo quando un linguaggio giudicante contribuisce invece a ridurre la fiducia del paziente verso il medico e l’efficacia della cura, oltre a favorire la depressione e un atteggiamento di rassegnazione che rischiano di portare a una auto-colpevolizzazione.
Il nuovo approccio linguistico si afferma mentre nel mondo cresce un movimento che promuove una relazione diversa con il corpo e con l’idea di “normalità fisica”. Si tratta del movimento della “body positivity”, che non va però confuso con la questione clinica legata all’obesità. La “body positivity”, infatti, ha una funzione sociale e culturale: rivendica il diritto dei corpi a non essere giudicati o esclusi quando non aderiscono a determinati standard che hanno dominato per molto tempo programmi televisivi e riviste, senza negare i rischi clinici legati a determinate condizioni. Il fatto che queste due diverse sensibilità abbiano preso piede in tempi recenti non può però non essere considerato e ha sicuramente contribuito a farle progredire simultaneamente, soprattutto a livello di linguaggio.
Una diversa narrazione
Il linguaggio, anche quello scientifico, infatti, ha una funzione strettamente legata a ciò che vuole raccontare, e se una parola cambia, con essa può cambiare anche l’approccio a quel tema. Se per anni sui mass media dimagrire è sempre stato raccontato come sinonimo di successo e realizzazione, se ingrassare veniva spesso collegato alla passività e al fallimento, stabilire che l’obesità è una malattia multifattoriale porta per forza a rivedere questa narrazione. Senza ovviamente mettere da parte l’impatto dell’obesità sulla propria salute, a maggior ragione riconoscendone anche la natura patologica, ma questo è un compito in primis dei medici e, a maggior ragione, è necessario che sia proprio dal loro ambito che parta un nuovo approccio e lasciare a loro tutte le considerazioni di natura medica del caso.
La parola, infatti, può ferire ma può anche curare, e proprio partendo da questa considerazione deve muoversi qualsiasi rivoluzione del linguaggio relativamente all’obesità abbracciando campi diversi a partire da quello medico: quel “Say what you mean, mean what you say” di cui parla lo studio pubblicato su Obesity, infatti, non va limitato all’ambito sanitario, ma può essere considerata una regola etica generale della comunicazione con il prossimo. In un mondo in cui, dai vaccini ai macchinari, la scienza medica fa passi che ci sembravano inimmaginabili, può suonare strano che un grande cambiamento passi solo dalla parola e che, con conoscenza e attenzione, se ne possa prendere parte senza essere medici o scienziati.