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Così il Pd si è spaccato sulla guerra in Ucraina

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Credit: AP

Al Parlamento Ue il gruppo dem si divide sul provvedimento Asap. Che velocizza l’invio di munizioni a Kiev. Ma la maggioranza vota a favore. Nonostante la contrarietà di Elly Schlein. Il bombardamento interno contro la segretaria è iniziato

È iniziata ufficialmente, con una dissociazione clamorosa nei gruppi parlamentari dell’Europarlamento, la guerriglia nel Partito democratico contro Elly Schlein. È iniziata mentre la segreteria era sotto botta per il brutto risultato incassato nelle elezioni amministrative, sotto il fuoco convergente e incrociato di media e critici interni: un solo grande centro vinto nei ballottaggi (Vicenza), per una sconfitta dettata, quasi del tutto, dalle difficili eredità e dalle candidature decise dalle gestioni dei leader del passato.

S&D

Ma la guerriglia contro la segretaria, guarda caso non è iniziata su questi verdetti delle municipali o su un qualche tema di polemica interna. È partita dall’Europa, con una manovra concentrica messa in atto nei minimi dettagli, su uno dei temi che in teoria più di ogni altra cosa dovrebbero caratterizzare la nuova segreteria: la Pace. 

I fatti sono pubblici, e apparentemente noti, ma molte sono state le interpretazioni infondate che hanno confuso le acque. Per questo è decisivo il retroscena che spiega cosa sta accadendo a via del Nazareno, e – soprattutto – perché stia accendendo proprio ora. 

Il punto di caduta delle tante tensioni nei diversi gruppi “frondisti” che per i motivi più diversi  combattono sottocoperta il nuovo corso del Pd è stato il voto su una risoluzione di enorme valore simbolico, ma anche carica di implicazioni pratiche: si tratta della cosiddetta “Asap” a cui in teoria, se avesse seguito le indicazioni della sua segretaria, il gruppo del Pd a Strasburgo avrebbe dovuto opporre un semplice No. Invece la presa di posizione pubblica della Schlein è stata interpretata dagli interessati nel senso esattamente opposto: ovvero come un pronunciamento a favore del provvedimento. 

“Asap” è un acronimo che riassume la definizione inglese del testo “Act in Support of Ammunition Production”: ovvero il via libera per tutti i Paesi membri all’acquisto di armi e munizioni da inviare in Ucraina.

Proprio sul tema più importante di questa risoluzione la Schlein aveva detto: «È inammissibile usare quei fondi per armi e munizioni». Parole difficilmente equivocabili. Invece, la maggioranza dell’eurogruppo del Pd, anche dopo questa presa di posizione, votava a favore dell’Asap, producendo la prima conta interna pubblica, la prima clamorosa spaccatura tra gli eurodeputati delle diverse anime dem, e la prima messa in mora delle vincitrice delle primarie.

Ad essere messi in minoranza a Strasburgo, infatti, sono stati gli uomini e le donne più vicini alla leader del Pd. Risultato: un compatto voto contrario alla risoluzione dei parlamentari del M5S e di Sinistra Italiana, con cui la linea tracciata dalla Schlein era in sintonia.

E uno scrutinio che, invece, vedeva gli eletti del Pd dividersi addirittura in tre, con queste proporzioni: dieci voti a favore della risoluzione sulle armi, quattro eurodeputati astenuti, e un solo contrario, l’indipendente (ora vicino all’Alleanza Sinistra Verdi) Massimiliano Smeriglio. 

A TPI Smeriglio spiega le ragioni del suo No, con una analisi che riguarda tutta l’Europa: «É caduta l’ultima diga, adesso usare fondi sociali per comprare armi diventerà un automatismo». Già. Perché la forza di Asap è quella di creare una sorta di corsia preferenziale che risolve ogni problema: tutto quello che era teoricamente destinato a infrastrutture, asili, scuole, progetti sociali e opere di qualsiasi tipo dei fondi coesione e del Pnrr (soldi, che – come sappiamo – in maggior parte sono ottenuti a debito!) può essere spostato, per direttissima, sul bilancio di spesa degli armamenti da spedire in Ucraina. Una mossa spregiudicata e sorprendente, giustificata con l’incombere dell’annunciata offensiva d’estate di Kiev nel Donbass, che crea per i sorvegliatissimi eurobilanci un precedente da “economia di guerra”. 

Altro paradosso: la stessa Europa che ostinatamente nega qualsiasi deroga al Patto di Stabilità (soprattutto per le spese sociali) consente ora a tutti i Paesi europei di rifornire i loro arsenali e metterli a disposizione per le commesse belliche all’Ucraina.

In sostanza si crea un capitolato di spesa militare parallelo per le armi, che produce Pil, e che diventa addirittura “concorrenziale” con le spese civili, e i loro più lenti iter procedurali nelle procedure di spesa della macchina dello Stato.

Ma questo circuito di forniture belliche a pioggia sta già creando effetti o conseguenze grottesche, come quelle che si sono verificati nella regione di Belgorod, la settimana scorsa, solo poche ore dopo il primo Sì (il voto definitivo, che ormai è solo una formalità, si terrà a luglio) ad Asap: domenica scorsa, di notte, a Belgorod, commandos della cosiddetta “Legione”, formazione zarista e neonazista affiliata all’esercito ucraino, hanno attaccato il territorio russo usando fucili e munizioni di provenienza belga.

Il che ha prodotto una vibrante nota di protesta, non delle Acli o dei francescani di Assisi, ma dallo stesso ministro della Difesa belga, Ludivine Dedonder, che aveva autorizzato quell’invio di armi al fronte sotto la rassicurazione che mai sarebbero state usate, se non nel territorio ucraino. Di questi tempi, tuttavia, ogni garanzia si dissolve come neve al sole. 

Ma torniamo alla manovra che ha prodotto il voto. Un fuoco preparatorio di dichiarazioni in cui si distinguono per attivismo Lia Quartapelle e l’ex ministro Lorenzo Guerini, dipinge il Sì alla risoluzione come necessario e ineluttabile, pena l’isolamento da ogni alleanza europea.

Molti degli eletti del Pd a Strasburgo sono ex renziani, ovviamente favorevoli al Sì, fra cui svettano l’ex popolare Patrizia Toia e l’ex candidata renziana in Veneto Alessandra Moretti. che il giorno del voto stupiscono tutti due volte: prima con il clamoroso via libera durante il voto in aula, poi con un altrettanto clamoroso (e precipitoso) comunicato di rettifica alle agenzie. Le due eurodeputate, spiegano, si sono sbagliate a votare: «Il  nostro è stato solo un nero errore tecnico» (sic). 

La Schlein queste figure  le conosce bene e se le è ritrovate lì, come eredità delle precedenti segreterie. Ma non può del tutto ignorarne il peso. A questo orientamento si aggiunge il muro di tutti i partiti socialisti, favorevoli ad Asap, che pesa moltissimo sulla delegazione italiana. 

Il funambolico capogruppo Brando Benifei, bonacciniano, alla fine della partita, risulterà decisivo: spezzino, ex orlandiano della sinistra interna, poi zingarettiano in maggioranza durante la segreteria di Zingaretti, ha sostenuto il governatore Bonaccini alle primarie.

Alla vigilia del voto la neo-segretaria, al contrario dei colleghi di Camera e Senato, decapitati, lo riconferma nel suo ruolo. Il lavoro di Benifei risulterà decisivo per ridurre la posizione della segretaria a una petizione di principio e traghetterà il gruppo verso il voto favorevole.

La ciliegina sulla torta, però, è l’ultima sorpresa. Attesa al gruppo per la discussione decisiva, la Schlein rinuncia al suo viaggio dopo la sconfitta nei ballottaggi.

A Roma la critica anche un ex leader del Ppi come Pierluigi Castagnetti, e i dissensi su Asap si aggiungono ai malumori per lo scarso attivismo durante l’alluvione in Romagna.

Elly decide di restare nella capitale per presidiare il Nazareno. Ed è la mossa fatale: al contatto diretto supplisce con una flebile diretta streaming nella riunione del gruppo. Spera ancora che gli eurodeputati possano convergere sull’astensione, prende una posizione molto netta contro l’Asap, ma è vero che, per i motivi appena ricordati, non dà un’indicazione di voto esplicita sulla risoluzione. 

La segreteria registra un videomessaggio pubblico di sei minuti in cui si parla della sconfitta – «Siamo qui per restare» – e si parla esplicitamente  anche di Asap con le parole di condanna che abbiamo già ricordato. Ma è troppo tardi.

Per limitare i danni, gli eurodeputati fedeli alla Schlein, fra cui la più vicina di tutti, Camilla Loreti (eletta in Italia centrale con il supporto di Zingaretti, fedelissima del nuovo corso, erede di David Sassoli), provano a fare massa sull’astensione.

La Laureti è parte della segreteria e volto del nuovo gruppo dirigente: e come lei si astengono anche Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, e il cattolico Achille Variati. L’ultimo è l’ex direttore della Dia Franco Roberti, magistrato antimafia. L’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, contrario al testo, alla fine non ha partecipato al voto. Per la Schlein è un risultato deludente: è vero che non si rompe il cordone ombelicale con i socialisti europei, ma la sua posizione appare minoritaria. Coloro che si sono astenuti sono figure – in un modo o nell’altro – “indipendenti”. 

Le primarie che solo il 26 febbraio l’avevano incoronata sembrano lontane. E in queste ore sulla sua testa aleggiano diversi malumori: quelli degli oppositori sconfitti, quelli dei troncati, quelli dei cattolici che non accettano le sue posizioni a favore della gravidanza per altri e delle famiglie arcobaleno, quelli di chi considera illegittima la sua elezione, segnata da una sconfitta di misura fra gli iscritti e un trionfo fra gli elettori. L’isolamento nel circolo allargato degli ottimati dem è palpabile. Lo stesso cerchio che si strinse intorno a Zingaretti sta stringendo di assedio la segretaria del Pd.

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