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Il mistero del simbolo del Pd e la guerra Calenda-Bersani: attento Zingaretti, la tua virtuosa prudenza rischia di diventare un boomerang

Immagine di copertina
Nicola Zingaretti, segretario del Pd. Credit: ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Il commento di Luca Telese

C’è una foto molto interessante nell’almanacco di questo fine settimana che merita di essere messa sotto la lente per capire cosa succede a sinistra. È una immagine in cui sono racchiusi sia l’essenza che i problemi del progetto di nuovo Pd che in queste ore è in pista per le elezioni europee.

È uno scatto di sabato scorso: in primo piano si vede un Nicola Zingaretti sorridente e a braccia larghe che pare un novello signor Bonaventura, mentre sventola un foglio con il nuovo simbolo del Pd come se fosse la leggendaria banconota da “un milione di lire”.

In molti, sui giornali, hanno pubblicato il nuovo simbolo, ma nessuno ha ancora spiegato bene quale equilibrio si celi dietro quella sintesi grafica. Constatazione preliminare: per la prima volta il logo del partito è ridotto quasi di un terzo rispetto alla proporzione del cerchio che gli elettori troveranno sulla scheda.

È il primo strappo con il passato, il più forte. Nelle europee scorse, con Renzi, una minuscola sezione circolare rossa, in basso, conteneva la semplice sigla dei socialisti europei, in caratteri illipuziani.

Oggi i pesi sono diversi e se questo accade è per una strategia ben precisa messa in campo da Zingaretti che sceglie di fare spazio a due nuovi importanti apparati grafici. In basso, infatti, c’è la bandiera blu stellata di giallo di “Siamo Europei” di Carlo Calenda, dall’altro il logo quadrangolare rosso del Pse.

Ed è come se in questa sintesi grafica fosse racchiusa tutta l’aspirazione di un progetto: da un lato aprire verso il centro con un enorme tributo al movimento fondato dall’ex ministro, dall’altro aprire alla sinistra del Pd, con una sanzione di adesione al Pse che in questo momento – tuttavia – è come se fosse un messaggio rivolto a Roberto Speranza, Pierluigi Bersani Massimo D’Alema e agli altri fuoriusciti a sinistra (ovvero la dispora dell’età renziana) per dire loro: “Questa è anche casa vostra, la casa della sinistra europea”.

Tuttavia la scelta di presentare il nuovo simbolo con uno solo dei due soggetti di questa idea espansiva – Calenda – ha terremotato i rapporti a sinistra. Il primo testimonial è stato valorizzato, i secondi (per ora) sono stati oscurati, e l’accordo con loro non è ancora sottoscritto (si tratterebbe di ricandidare un giovane uscente Massimo Paolucci, e aprire ad un nome forte ed evocativo, un personaggio come potrebbe essere Susanna Camusso).

Ma siccome questo accordo ancora non è chiuso, mentre quello con Calenda sì, nella casa di Articolo Uno, in molti dicono, come Chiara Geloni: “Il Pse in quel simbolo è ridotto a uno sputo, mentre il simbolo di Calenda è enorme. La cosa curiosa è che rappresenta un movimento animato da un iscritto del Pd! Un paradosso”.

Sabato e domenica prossimi Articolo Uno celebrerà il suo congresso di Bologna, ed è quella data il termine ultimo per un accordo, che paradossalmente oggi sembra diventato più difficile: “Se si guarda quel simbolo si ha l’idea che rappresenti la parte degli elettori di sinistra colti e cosmopoliti, quelli che in questi anni appendevano le bandiere dell’Europa alle finestre. Una bellissima minoranza. Ma è un po’ come dire: ‘Scusate, non abbiamo capito nulla della sconfitta’”.

La Geloni è famosa per le sue sintesi caustiche, ma il problema esiste, Solo la settimana che viene, dunque, ci dirà se si troverà un accordo in extremis tra il Pd e Articolo Uno, oppure se – in mancanza di un patto – alle europee gli elettori progressisti finiranno per trovare ben tre simboli: 1) quello della lista Dem, 2) quello di una lista dei socialisti insieme con Articolo Uno, e 3) quello della tradizionale lista di sinistra (che come accadde con la lista Tsipras è animata dal patto tra Sinistra Italiana e Rifondazione).

Il retroscena della mossa “preferenziale” fatta da Zingaretti nei confronti di Calenda è racchiuso in un incontro tra l’ex ministro è il segretario che si è svolto un giovedì del mese scorso, a quattrocchi.

Fino a quel giorno Calenda era corteggiato in maniera pressante da Bruno Tabacci e da Benedetto della Vedova perché portasse il suo one-man-party “Siamo europei” in un cartello elettorale con loro. sui tavoli di questa trattativa furoreggiava un sondaggio riservato da cui risultava che il ticket tra questi due movimenti avrebbe potuto superare il 6,5 per cento.

Sulla base di questo sondaggio Calenda ha detto a Zingaretti: “Se vuoi, di comune accordo con te, faccio questa operazione e fondo la seconda gamba della coalizione”.

Il retropensiero di entrambi era rivolto – ovviamente – a Matteo Renzi. Una forza “liberal” radicale a destra del Pd – infatti – renderebbe molto difficoltosa la sua fuoriuscita dal partito Zingarettiano e la nascita di un nuovo movimento in un’area che sarebbe affollata, ma ruberebbe anche possibili voti al Pd.

Calenda aveva anche una stima del suo peso con una lista singola di “Siamo Europei”: qualcosa a metà fra il 3,5 e il 4,5 per cento. Possibile? Sta di fatto che non lo scopriremo mai perché in quel colloquio così importante il segretario del Pd gli ha spiegato il suo punto di vista: “In questo momento è meglio aggiungere due punti in più sulla lista del Pd che raccogliere sei punti fuori”.

Infatti il primo obiettivo di Zingaretti è: superare la soglia del 20 per cento e migliorare di almeno tre punti il risultato delle elezioni politiche. È in questo scenario che è maturato l’accordo sulla lista presentata sabato. Con una cambiale generosa pagata a Calenda, per aver rinunciato alle sirene di Tabacci da un lato, e con la speranza di chiudere ugualmente l’accordo con Articolo Uno dall’altro.

I primi nomi che circolano come ipotesi di candidatura del Pd danno conto di questo eclettismo: una renziana che si é battuta contro Zingaretti come Simona Bonafé, e l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Una liberal (ex montiana di Scelta civica) come Irene Tinagli e il popolarissimo Pietro Bartólo, l’ex medico di Lampedusa, volto amato dal popolo della sinistra.

L’idea di Zingaretti è quella di tenere volutamente insieme la destra e la sinistra in quello che il suo vice Massimo Smeriglio chiama scherzando “il Democratic party of Garbatella” (che è il suo quartiere, ma anche quello dove ha sede la regione), riassunto da questa frase: “In America Hillary Clinton e Bernie Sanders stanno nella stessa casa”.

Certo, molti sono i nodi politici irrisolti: perché Smeriglio e i dirigenti di Articolo Uno – per dire – sono sostenitori dell’accordo con il Movimento Cinque Stelle (Zingaretti governa il Lazio con questo patto). Il vecchio partito renziano, invece, considera Di Maio il peggiore nemico del Pd. E si potrebbe continuare su tanti nodi strategici a partire dalle politiche del lavoro.

Goffredo Bettini, grande stratega di scenario, consigliere politico di Zingaretti (e suo padre politico) non solo dice “Il M5s non è il nostro nemico”, ma considera il reddito di cittadinanza una misura positiva: “Il Pd di Renzi ha schifato la rabbia sociale, noi dobbiamo attraversarla”.

Non solo. Sul nodo decisivo del rapporto con l’uomo di Rignano Bettini si spende anche più in là: “Se Renzi fa un partito e organizza i moderati ci dobbiamo alleare con lui domani”. Una frase perfettamente ambivalente: perché da un lato offre un ramoscello dell’Ulivo, dall’altro esprime la convinzione che Renzi in questo partito zingarettiano stia molto stretto. E forse gli indica persino una via.

Infine l’ultimo nodo, l’immagine del nuovo corso. Il giorno in cui è stata resa nota la notizia che Luigi Zanda, neo-tesoriere del partito ed ex segretario aveva presentato una proposta di legge per aumentare gli stipendi dei deputati italiani (portandoli a 19.000 euro al mese) e un’altra per reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti, il portavoce di Zingaretti – Andrea Cappelli detto “Speedy” – era intervenuto in modo fulmineo su tutti i social per spiegare che quella non era la proposta del partito. Anche se da molti è stata percepita così.

Ma questo cortocircuito mediatico prodotto dalla notizia è anche la fotografia dell’ultimo paradosso. Zingaretti ha raccolto un insperato plebiscito nel popolo della sinistra con una campagna impeccabile, molto abile ma anche molto tattica in cui non ha girato nessuna carta sui punti più controversi de dibattito: il lavoro, i diritti, il rapporto con il passato.

Renzi entrò nella campagna delle europee con le parole d’ordine delle celeberrime slides di Palazzo Chigi, della Rottamazione e degli Ottanta euro: fece il pieno. Il nuovo leader del Pd, invece, per ora ha detto ancora poco o pochissimo: la foto del signor Bonaventura Dem rischia di apparire leggermente sbilanciata a destra. Anche perché Calenda è attivissimo e in diverse interviste ha detto “la Boldrini non fa parte di questo progetto” e anche “Articolo Uno non sarà nella nostra lista”.

Certo, Zingaretti va per la sua strada. Per ora ha avuto alcune trovate importanti, soprattutto dal punto di vista “aspirazionale”, come l’idea di archiviare il Nazareno con un trasloco (messaggio forte sul piano simbolico, ma converrebbe soprattutto economicamente) scegliendo una sede in periferia con al piano terra una libreria.

Per il resto, però, ci sono molto attendismo e molta prudenza. In parte giustificati: molti gangli organizzativi del Pd sono ancora in mano ai renziani, in particolare i gruppi parlamentari, e questo rende meno agevole la manovra del nuovo corso, soprattutto in caso di crisi: non solo per via di chi dirige i gruppi (Graziano Del Rio e Andrea Marcucci), ma soprattutto per la composizione degli eletti, che Renzi con un famoso colpo di mano notturno, determinò al tavolo delle candidature (decimando senza pietà le minoranze di allora).

Al Senato gli zingarettiani sono addirittura una minoranza. Il che obbliga il segretario (che non è tipo da purghe) ad augurarsi un voto anticipato e se possibile a favorirlo, per arrivare ad un ricambio più riequilibrato della rappresentanza, senza la necessità di spargimenti di sangue.

Tuttavia i problemi con Articolo Uno sono il prodotto di una continuità con il passato che oggi (soprattutto per chi guarda da fuori) sembra ancora molto marcata. Basti pensare che il segretario ha ereditato dal passato i due candidati alle regionali non scelti da lui, ma poi è stato addirittura criticato per i risultati ottenuti dagli uomini di Renzi.

I dati del partito sul piano locale sono stati altalenanti, ma accomunati da una costante: la coalizione non è concorrenziale ma tiene, il Pd va male, forse cannibalizzato dalle liste apparentate. Senza una colpo d’ala la cartina d’Italia che era tutta rossa (nel 2014 con le sole eccezioni di Lombardia e Veneto e con persino la Sicilia governata da Crocetta!) rischia di diventare tutta blu con persino Toscana ed Emilia Romagna a rischi scalata.

Quello che Zingaretti sa è che da questo momento in poi i candidati e le alleanze le sceglie lui. Tuttavia la discontinuità manca soprattutto considerando che l’unica vera parola d’ordine delle primarie era: “Voltiamo pagina”.

È vero che il nuovo leader è un culo di piombo, un organizzatore, uno famoso per non avere mai fretta, un diesel più che un centometrista. Ma è vero – come sanno bene Salvini e Di Maio – che i tempi della politica mediatica di prima linea sono devastanti e hanno ritmi ossessivi: la ruota gira di continuo e in questo scenario, senza una accelerazione di discontinuità, la concorrenza delle liste di sinistra contro un Pd “calendizzato” potrebbe trovare argomentazioni forti e sottrarre voti importanti.

È vero, come dice sorridendo Smeriglio, “attenti che Nicola ha una delle doti più importanti di cui un politico deve essere provvisto: il fattore ‘C’, come culo!”. Ed è vero che la campagna elettorale è lunga, è il governatore la guiderà mossa dopo mossa, magari nelle serate in cui va a cena con il suo vice all’”Acino brillo”, locale della Garbatella di identità molto “zingarettiano” (gestito da una cooperativa di lesbiche, e famoso per la sua panzanella di pomodoro, ad un passo dalla sede della Regione).

Ma è vero anche che non si può riposare sugli allori: la prudenza zingarettiana che nelle primarie si è rivelata uno dei maggiori pregi oggi potrebbe diventare un handicap.

Il giovane Zingaretti: romanzo di formazione di un futuro Ieader a cavallo tra il Partito, Ingrao, Bettini e il muro di Berlino

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