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60mila minori stranieri senza protezione in Italia, Unicef a TPI: “Il decreto sicurezza ostacola il percorso d’integrazione dei giovani migranti”

Anna Riatti, Coordinatrice Unicef del programma per bambini e adolescenti migranti e rifugiati in Italia, illustra gli ostacoli legati al passaggio dall'età a giovane a quella adulta degli stranieri

 

60mila minori stranieri non accompagnati in Italia senza protezione

70mila minori stranieri non accompagnati (Msna) sono arrivati in Italia dal 2014 al 2018, nove su dieci erano adolescenti tra i 15 e i 17 anni, e circa 60mila di loro sono diventati maggiorenni dopo l’arrivo in Italia. Ma dopo i 18 anni il sistema di accoglienza tende a lasciarli sempre piu soli.

È quanto emerge da una ricerca realizzata da fondazione Ismu in collaborazione con l’Università Roma Tre e l’Università degli studi di Catania presentata venerdì 8 novembre a Roma da Unicef, Iom e Unhcr, che hanno commissionato la ricerca.

A un bivio: la transizione all’età adulta dei minori separati e non accompagnati in Italia, è uno studio condotto su 185 mnsa in tre regioni (Sicilia, Lazio e Lombardia) e mette in evidenza gli ostacoli che oggi impediscono ai giovani stranieri di vivere un passaggio sano e sicuro verso l’età adulta in Italia, e di diventare autonomi per integrarsi nel nostro Paese.

Un minore non accompagnato, una volta compiuti 18 anni, è considerato dalla legge “adulto”, anche se non ha trovato nel frattempo gli strumenti necessari a definirsi tale, a essere cioè autonomo e indipendente.

Dopo la maggiore età l’impianto normativo non garantisce più tutte le protezioni previste invece per chi è ancora minorenne: la possibilità di accedere a corsi di formazione, di imparare la lingua, di proseguire il percorso di studi iniziato nel proprio Paese e avere uno status legale riconosciuto. E la tranquillita’ di non poter essere respinto in quanto minore.

Secondo Anna Riatti, Coordinatrice del programma per bambini e adolescenti migranti e rifugiati in Italia di Unicef, che ha commissionato la realizzazione dello studio insieme a Unhcr e Iom, il decreto sicurezza e immigrazione varato nel 2018 dall’allora ministro dell’Interno ha complicato questo processo, perché ha abrogato il riconoscimento della protezione per motivi umanitari.

Questa infatti veniva concessa anche ai neo maggiorenni che non riuscivano a ottenere lo status di rifugiato, permettendo loro di ottenere un riconoscimento legale alternativo anche dopo i 18 anni, quando decadono il diritto di non respingimento e quello all’accoglienza incondizionata previsti dalla legge per tutti i Msna.

“Il 60 per cento dei Msna fino a quando esisteva la protezione umanitaria beneficiavano di essa, quindi con la sua abolizione ci si pone il problema di come proteggere queste persone a livello legale, soprattutto quelli che hanno subito un trauma attraversando il Mediterraneo centrale nella rotta verso la Libia”.

“Anche se questo decreto non ha un impatto diretto sui minori stranieri, diventa poi un ostacolo nel passaggio alla maggiore età, perché è difficile la conversione della protezione umanitaria verso altri tipi di protezione”, afferma Riatti.

“Questo è un ostacolo nel garantire la continuità di un percorso d’inclusione sociale che è cominciato a partire dalla minore età e che nelle fasi di sviluppo di ciascun ragazzo deve essere garantito, finché il migrante non è in grado d’integrasi autonomamente nel nostro Paese”, osserva ancora Riatti.

Lo studio Ismu mette poi in evidenza come ci siano anche altri fattori che ostacolano la transizione dei giovani rifugiati e migranti verso l’età adulta: procedure lente e complesse per il rilascio di documenti legali, casi di discriminazione e razzismo, difficoltà nell’accesso all’istruzione e alla formazione e nell’inserimento lavorativo, il superamento di traumi emotivi, nonché il rischio di subire violenza, in particolare per le ragazze.

Emanuela Bonini, coordinatrice della ricerca, spiega che in questa fase critica sono l’accesso all’istruzione, la formazione professionale, le opportunità occupazionali e la possibilità di trovare un luogo sicuro in cui vivere gli elementi necessari a favorire il passaggio.

E afferma che le relazioni positive con i propri pari e i propri tutori possono fare la differenza nel percorso d’integrazione.

Come è successo a Mohamed Keita, un giovane ivoriano che ha contribuito alla realizzazione dell’indagine intervistando i minori stranieri oggetto dello studio e confrontando la propria esperienza con la loro.

La storia di Mohamed Keità

 

 

Mohamed è arrivato in Italia nel 2010, quando aveva 17 anni. Ora di anni ne ha 26. Racconta a TPI che la più grande difficoltà affrontata una volta arrivato nel nostro Paese è stata la mancanza di persone a cui raccontare la sua situazione e esternare le sue aspirazioni per il futuro.

“Prima di arrivare ho affrontato un viaggio di tre anni, è stato abbastanza difficile”, spiega Mohamed, “Il primo problema che ho incontrato una volta concluso il viaggio era non sapere con chi confidarmi e a chi raccontare i miei problemi”.

Ma grazie all’aiuto di “Civico zero”, una Onlus di Roma che si occupa dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati in Italia, ha trovato le persone in grado di dargli i giusti consigli , di scoprire le sue aspirazioni e di farlo studiare per realizzarle.

Ora Mohamed lavora come fotografo. “Ho fatto un tirocinio e questo mi ha aiutato perché non avevo possibilità di trovare la casa senza un contratto di lavoro”.

Ma racconta che molti dei migranti che ha intervistato non hanno trovato il supporto necessario e le persone capaci di ascoltarli.

Come spiega Bonini, dall’indagine emerge che il ruolo del tutore, anche quando questa figura è garantita, è da costruire sul campo, e la buona relazione con il minore dipende dalla sua capacita’ di ascolto e di entrare in empatia con la persona che gli è affidata.

“Le relazioni assumono una valenza che aiuta i ragazzi a costruire capitale sociale da usare quando diventano adulti”, spiega la ricercatrice.

“Molti ragazzi non possono andare avanti da soli e quando si trovano in difficoltà non riescono a immaginarsi cosa fare nel futuro, e che cosa possono essere un domani” conclude Mohamed.

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