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Armi & Governo: affari d’oro senza freni

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Guido Crosetto, ministro della Difesa ed ex presidente di Aiad. Credit: AGF

La legge italiana vieta di vendere bombe ai Paesi antidemocratici. Ma l’ex FdI Cossiga Jr, presidente delle aziende del settore difesa, chiede di alleggerire i vincoli. E in Senato dice: “Deve decidere tutto il premier”. Ai Signori della guerra non basta il 2022 record

I Signori della guerra vogliono sempre di più. Non si accontentano della corsa al riarmo globale, dei governi che aumentano le spese militari, delle commesse che si rincorrono, dei fatturati che si gonfiano. Ora le aziende italiane del settore difesa chiedono anche di abbattere certi fastidiosi paletti fissati dalla legge, che ad esempio impediscono loro di vendere armamenti a Paesi che non rispettano i diritti umani (ma guarda un po’). E, per snellire la burocrazia, suggeriscono che il potere di dire sì o no a un contratto di esportazione sia tutto accentrato in mano al presidente del Consiglio.

Portavoce di questa istanza è Giuseppe Cossiga, figlio dell’ex capo dello Stato Francesco e neo-presidente di Aiad, la federazione delle imprese di aerospazio, difesa e sicurezza.

Fino allo scorso novembre su quella poltrona sedeva l’ex deputato Guido Crosetto, dimessosi perché nominato ministro della Difesa (nonostante il palese conflitto d’interessi).

Cossiga Junior e Crosetto si conoscono da tempo: tra il 2008 e il 2011, sotto l’ultimo governo Berlusconi, erano entrambi sottosegretari (alla Difesa ovviamente). Il figlio del “picconatore” è stato per dodici anni deputato di Forza Italia, salvo poi passare a Fratelli d’Italia, con cui si è candidato al Senato nel 2013 senza essere eletto. È un uomo di destra, insomma. Ma dal 2017 è anche un manager di Mbda, il colosso europeo dei missili.

Ma torniamo alla richiesta avanzata da Aiad. Lo scorso 14 febbraio il presidente Cossiga è stato ricevuto in audizione dalla commissione Esteri e Difesa del Senato, affiancato dal segretario generale della lobby, Carlo Festucci.

Dopo aver ricordato che le aziende del settore – Leonardo, Fincantieri, ma anche «pmi altamente qualificate» – macinano un volume d’affari da 17 miliardi di euro e 52mila posti di lavoro (che con l’indotto salgono a 40 miliardi e 210mila addetti),  Cossiga è passato all’analisi.

Per il comparto italiano degli armamenti, i clienti principali – ha spiegato – sono i «Paesi del Medio Oriente: Kuwait, Qatar e ultimamente anche l’Egitto», da cui arrivano «grandi commesse che riguardano grandi sistemi d’arma, come una nave da combattimento o aereo da combattimento». Ma «si tratta di mondi – osserva il presidente di Aiad – che alle volte presentano delle criticità anche ai sensi della legge 185».

Il riferimento è alla legge 185 del 1990, che disciplina il controllo sulle esportazioni degli armamenti. La norma, fra le altre cose, vieta di vendere navi militari, aerei da guerra, bombe, cannoni, carri armati a Paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Vincoli talvolta eccessivi, secondo Cossiga: le aziende italiane, ha lamentato in Senato, «soffrono iter che molto spesso sono lunghi, non solo per ragioni burocratiche, ma anche per l’elaborazione della posizione politica». 

Secondo il presidente di Aiad, dovremmo prendere a modello la Francia, dove «quando ci sono delle criticità, vengono affrontate dal governo». «Quello che manca nella nostra legge – “piccona” Cossiga Jr – è una maggiore oggettività e una maggiore chiarezza dell’impronta governativa delle decisioni che riguardano l’export».

Oggi l’autorizzazione per una commessa deve passare dal ministero degli Esteri e da quello della Difesa, coordinati da Palazzo Chigi. «Paesi diversi come la Francia, invece, hanno un sistema più diretto, in cui sostanzialmente la vendita è autorizzata o supportata direttamente dalla presidenza della Repubblica».

In sintesi, dunque, le aziende che vendono armamenti sollecitano un nuovo sistema di regole più leggero in cui tutto è rimandato alla decisione del presidente del Consiglio. Una proposta che si innesta peraltro alla perfezione dentro il piano di riforma semipresidenzialista (alla francese, appunto) che il Governo Meloni ha in cantiere. Chiamatelo pure il semipresidenzialismo delle armi.

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