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“Le Big Tech sono una minaccia per la democrazia”: intervista al prof. Juan De Martin

Immagine di copertina
Juan Carlos De Martin, professore di ingegneria informatica al Politecnico di Torino. Credit: Michele D'Ottavio

“Negli ultimi 30 anni i governanti europei hanno rinunciato a controllare le reti chiave per la gestione delle informazioni. Le hanno lasciate in mano ai giganti digitali Usa. Così l’Europa ha perso la sua indipendenza”

Dal 23 al 25 gennaio il Palazzo Ducale di Genova ospiterà “Democrazia alla prova”, una tre giorni di dibattiti organizzata dal Forum Disuguaglianze e Diversità e dal Palazzo Ducale e curata in particolare dall’ex ministro Fabrizio Barca (co-coordinatore del Forum) e dall’intellettuale genovese Luca Borzani. Al centro dell’evento c’è un interrogativo: in un’epoca segnata da trasformazione digitale, concentrazione in poche mani di ricchezza e potere e dinamiche autoritarie, come può rigenerarsi la democrazia? Tra i relatori – assieme a Gaetano Azzariti, Lucio Caracciolo, Jayati Gosh, Evgeny Morozov, Susan Stokes, Nadia Urbinati, Chiara Volpato – c’è Juan Carlos De Martin, professore di ingegneria informatica al Politecnico di Torino, noto per la sua attività di ricerca e di divulgazione sul rapporto tra tecnologie digitali e società.

Professore, dopo l’uscita, circa due anni fa, del suo libro “Contro lo smartphone” (Add Editore), lei ha iniziato a parlare di «computerizzazione del mondo». Cosa intende?
«Mi riferisco al processo di diffusione dei computer iniziato 80 anni fa con il primo calcolatore elettronico, l’Eniac, sviluppato dagli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel corso dei decenni i computer si sono diffusi sempre di più, ma negli ultimi 15 anni si è registrata una vera e propria proliferazione di queste macchine, che sono entrate anche in molti altri oggetti d’uso comune, come smartphone, smart tv, telecamere smart (la parola “smart” indica che all’interno c’è un computer connesso a Internet). Anche solo limitandoci agli smartphone, osserviamo da una parte che ormai più di metà dell’umanità lo usa varie ore al giorno, e dall’altra che per la prima volta nella storia siamo di fatto obbligati a possedere una specifica macchina, altrimenti diventa molto difficile vivere».

Cosa implica questo per le nostre società?
«Negli Stati Uniti e in Europa questo processo, soprattutto negli ultimi vent’anni, è stato portato avanti in maniera fortemente centralizzata e verticale. Oggi una manciata di aziende statunitensi tiene le redini delle tecnologie informatiche, al punto che si parla ormai apertamente di colonialismo digitale degli Usa sull’Europa: basti pensare al duopolio di Apple e Google sui sistemi operativi degli smartphone, o ai social media americani (con l’aggiunta di TikTok), che hanno il potere di influenzare l’opinione pubblica con modalità pervasive e largamente opache. La computerizzazione del mondo pone grandissime questioni non soltanto economiche o giuridiche, ma anche politiche».

Proviamo a spiegarle.
«La storia ci insegna che per qualunque entità, pubblica o privata, ci sono tre infrastrutture sulle quali è essenziale mantenere il controllo: le infrastrutture di trasmissione delle informazioni, quelle di archiviazione delle informazioni e quelle di elaborazione delle informazioni. Se non si ha il pieno controllo, anche fisico, su queste infrastrutture, non si può essere indipendenti. Eppure, negli ultimi trent’anni, i governanti europei hanno incredibilmente rinunciato a controllarle, diventando dipendenti da grandi imprese statunitensi: se improvvisamente una Big Tech decidesse di spegnere un “interruttore”, potrebbero venir meno pezzi importantissimi per il funzionamento dei nostri Paesi, come il servizio di posta elettronica».

Questa rinuncia è stata una scelta consapevole o frutto di incompetenza?
«C’è probabilmente una quota di incompetenza di base, soprattutto in anni passati, ma potrebbero essere state determinanti anche azioni di cooptazione delle élite europee da parte degli Stati Uniti. Un altro possibile fattore lo ipotizza Emmanuel Todd nel suo ultimo libro, quando scrive che le élite sono probabilmente ricattabili».

Si sente spesso dire che le Big Tech sono più potenti dei governi politici. È davvero così?
«Lo strapotere delle Big Tech è dovuto non solo alle loro capacità tecniche o agli enormi quantitativi di dati che hanno accumulato negli anni, ma anche al fatto che sono statunitensi: dietro a Zuckerberg, Bezos o Musk, ci sono, più o meno direttamente, gli Stati Uniti, con tutta la loro potenza finanziaria, mediatica e militare. Se queste imprese fossero uzbeke o albanese o italiane, anche a parità di capacità tecnologica e di denaro, non avrebbero lo stesso potere. Ciò detto, se è vero che il governo Usa rafforza la loro capacità di incidere, è anche vero che resta un potere superiore a loro. Un qualsiasi presidente americano potrebbe rendere la vita difficile a questi giganti, se volesse».

E sul fronte europeo?
«Con il Digital Service Act (Dsa) e il Digital Market Act (Dma) l’Ue ha provato ad arginare il potere della Silicon Valley, ma queste norme sono state criticate sia dagli Stati Uniti, che le hanno interpretate come un’indebita ingerenza, sia internamente all’Europa, dove alcuni aspetti, soprattutto del Dsa, fanno temere limitazioni alla libertà di espressione».

Cosa possono fare i governi europei e i comuni cittadini per tutelarsi dalle Big Tech americane?
«I singoli possono fare qualcosa – come cercare di capire più approfonditamente come funzionano i computer che utilizzano nel loro quotidiano, dagli smartphone agli assistenti domestici – ma deve essere la politica a tutelare a monte i cittadini intervenendo a livello normativo per stabilire cosa si può e non si può fare».

L’Intelligenza artificiale rischia di aggravare la situazione?
«Temo proprio di sì. L’Intelligenza artificiale pone almeno due questioni che ritengo preoccupanti. Da un lato, i suoi utilizzi per scopi militari, dall’altro la possibilità di aumentare il livello di sorveglianza sui cittadini da parte di chi ha in mano queste tecnologie».

Se i software più diffusi sono principalmente statunitensi, le materie prime con cui si costruiscono i computer sono un quasi monopolio della Cina.
«A partire da una cinquantina d’anni fa, Stati Uniti e Europa hanno trovato economicamente conveniente, anche se strategicamente miope, delegare alla Cina l’estrazione e la lavorazione delle materie prime, attività complesse, inquinanti e costose. Alcuni investitori in Occidente si sono arricchiti moltissimo sfruttando i lavoratori a basso costo cinesi, ma nel frattempo Pechino, in maniera lungimirante, ha portato avanti una strategia di acquisizione di know-how, di crescita e di sviluppo economico di cui oggi raccoglie i risultati».

Il divario con la Cina è realisticamente colmabile?
«Nel medio-lungo termine tutto è colmabile, ma servirebbero una visione strategica, costanza e adeguati finanziamenti».

Ne vede in Europa?
«L’Europa deve decidere quale ruolo vuole giocare nei prossimi decenni. Veniamo da mezzo millennio in cui gli occidentali hanno colonizzato e depredato il resto del mondo. Quell’epoca è finita: adesso il resto del mondo – che rappresenta i nove decimi dell’umanità – ha la forza, tecnologica ma non solo, per fare da sé. In questo quadro, l’Europa diventa una regione relativamente piccola, anziana, ancora benestante, tecnologicamente avanzata ma priva di materie prime. In questo momento l’élite europea sembra intenzionata a recitare la parte del porcospino d’acciaio, puntando sull’industria bellica e provando a proiettare all’esterno un’immagine di potenza, ma si tratta di un’illusione, perché i rapporti di forza non sono più quelli del passato. Io penso che dovremmo riconoscere apertamente che si è chiusa una fase storica e puntare su rapporti il più possibile pacifici e collaborativi con il resto del mondo, chiarendo cosa abbiamo noi da offrire in cambio di ciò di cui abbiamo bisogno».

E cosa possiamo offrire?
«Sicuramente una diversità culturale, storica e artistica molto ricca. Che non significa puntare solo sul turismo riducendo l’Europa a museo a cielo aperto per il resto del mondo: possiamo e dobbiamo continuare a produrre cultura, pensiero, arte, ricerca, valorizzando le diversità di lingua e di cultura che abbiamo. Saremmo anche perfettamente in grado di continuare a produrre alta tecnologia per fini pacifici, se solo si investisse adeguatamente in ricerca e sviluppo, oltre che in istruzione. Ciò però richiederebbe di interrompere una dinamica trentennale di austerità, deflazione salariale e scarsi investimenti, sia pubblici sia privati».

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