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La rivincita di Ma-Zinga (di Luca Telese)

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Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Il segretario del Pd in un anno ha ribaltato tutti i pronostici contro di lui

Ma “Zinga” non funziona, dicevano. E declinavano il segretario del Pd con il nomignolo e l’avversativa, evocando il celebre robot dei manga. Profetizzavano sconfitte e sfracelli, la Caporetto del governo giallorosso, il trionfo di Matteo Salvini. È passato un anno, è accaduto esattamente il contrario. Anche per chi è abituato prendere i sondaggi con le molle, il dato – macroscopico, e registrato da tutti gli istituti – salta all’occhio.

Un anno fa la Lega aveva preso il suo massimo storico nelle urne europee, era sopra il 35% dei consensi, e aveva ben il 13% di vantaggio sul Pd, primo partito del nuovo centrosinistra. Quel dato – fra l’altro – era già un segnale di recupero: alle politiche il Pd di Renzi era al 18%, con le ossa rotte, e la sua coalizione (solo virtuale) era a pezzi. Si diceva: sì, d’accordo, ma Lui aveva carisma, e Zingaretti no. Aggiungevano: sì, va bene, ma il governatore del Lazio non durerà. Spiegavano: come volete, Renzi però ha governato! E soprattutto: Ma “Zinga” ha già fatto il pieno dei voti, cosa volete che faccia, dall’opposizione, con un partito distrutto che non è sexy come quello della Leopolda?

Erano ovviamente voci parziali, obiezioni mosse da alcuni osservatori non del tutto sereni – diciamo -, ma si diceva anche: pure questo è un limite di “Zinga”, non convince. Mentre Renzi piaceva a tutti, lui è un anti-leader, non piace “a nessuno”, non seduce le elitès. Vero, ma forse proprio questo – paradossalmente – è diventato il suo punto di forza: il primo leader del Pd degli ultimi anni che non piace alle elitès, ma piace ai suoi elettori.

Pochi mesi dopo, nel pieno dell’estate, si celebravano altri due eventi decisivi: sotto l’egida di “Zinga” nasceva il governo del Pd con il M5s (con una scorpacciata di ministri dem, ben nove!) e il partito subiva una scissione (quella di Italia viva). Se andate a leggere i soliti giornali e i commenti delle solite firme che contano, anche lì c’era un-nuova raffica di ma-Zinga: adesso “l’uomo di Rignano lo svuota”, “il M5s lo spolpa”, “il Pd non controlla il governo”, “Renzi farà ballare la maggioranza come al circo”, “il vero padrone di casa è Di Maio”.

A scriverlo erano firme quasi tutte (sedicenti) liberal progressiste, che dicevano di parlare in nome del bene del Pd (e non del paese, già questo è un errore). E – ovviamente – in questo racconto, drammatizzante ed enfatico, guadagnavano intere paginate le sparate memorabili (al contrario) di Matteo Renzi: “Noi di Italia Vriva siamo nati per svuotare il Pd, come Emmanuel Macron ha fatto con i socialisti francesi”. Boom.

A settembre – tanto per chiedere questo cerchio – arrivò anche il vaticinio dell’ingegner Carlo Debenedetti, tonico e chiaro – come sempre – nei suoi giudizi: “Salvini ha già vinto. Arriverà al 40%, perché non è stato sconfitto nelle elezioni”. Ospite di Lilli Gruber, in una memorabile puntata, l’ingegnere mise il carico da novanta: “Non voterei la fiducia a Conte, è un trasformista, e poi questo Governo durerà fino a quando Renzi vuole che duri”. Infine su Nicola Zingaretti c’era un vero e proprio tirassegno: “Ha sbagliato la mossa”, “Ha subito il governo che non voleva”, “Non ha il carisma di Renzi”, “Non riesce a inventare slogan efficaci come quelli del Leopolda”.

È divertente osservare, in questo primo bilancio, che sia il leader di Italia Viva sia l’ingegnere tessera numero uno del Pd sia i commentatori “liberal progressisti” non ne abbiamo azzeccata nemmeno una:
1) Di Maio, che secondo loro doveva essere il vero leader del governo, non è più (almeno per ora) neanche il leader del M5s.
2) i ministri più importanti durante l’emergenza Covid (piacciano o meno) sono diventati i due uomini del Pd, Francesco Boccia e Roberto Gualtieri (uno tiene i rapporti con le Regioni, l’altro le chiavi della cassa più ricca dell’ultimo mezzo secolo).

3) gli uomini del M5s più importanti del governo (piacciano o meno) sono diventati quelli della componente più “riformista” del partito: il primo è Stefano Patuanelli (che nel governo gialloverde nemmeno c’era) e la seconda è Lucia Azzolina (che ai tempi dell’alleanza con la Lega era addirittura in disgrazia per le sue posizioni “riformiste”).
4) Il Pd non è stato spolpato dal M5s, ma si è rafforzato, mentre i grillini sono comune riusciti a fermare la loro caduta.

Ma proseguiamo con il gioco dei paragoni:
5) Renzi non è diventato “il padrone del governo”, e si è appena rimangiato tutte le sue ultime rodomontesche sparate (ormai un classico) sulla presunta sfiducia a Bonafede.
6) Conte ha fissato il record di popolarità di un premier.

7) Renzi e Italia Viva – sulla linea di conflittualità su tutto – hanno rispettivamente stabilito il record di impopolarità e il minimo nei sondaggi. L’uomo di Rignano proclamava di voler svuotare ed è stato – per così dire svuotato.
8) Salvini ha perso 10 punti di consensi, ed è insediato da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia che stanno crescendo di quasi 10 punti rispetto alle elezioni politiche.

Ma soprattutto: a prescindere dai sondaggi, il salvinismo mostra un inequivocabile logoramento, una obsoletizzazione di linguaggio e di contenuti: dopo essere diventato principe e maestro nel porsi come antidoto di virus ansiogeni che lui stesso creava, Salvini è stato dialetticamente disarmato da un virus che non poteva controllare e immaginare. Rispetto all’incubo del Coronavirus, la paura dei barconi è diventata improvvisamente un ricordo, come un apriscatole al cospetto di un computer di ultima generazione.

Bene, adesso bisogna tornare al discorso sulle leadership. Ma se i due Mattei erano davvero due geni, e Zingaretti rispetto a loro era così “antico”, come può essere accaduto in così poco tempo un ribaltamento dei rapporti di forza di queste proporzioni?

La prima risposta che viene in mente è che questi due luoghi comuni non fossero veri, che il “Ma-Zinga” -l’avversariva comparativa – fosse un abbaglio totale. La seconda risposta è scaramantica: Zingaretti ha culo. Ed è vero che sul fattore C in politica c’è una vasta letteratura: Romano Prodi arrivò addirittura a teorizzarlo. La terza risposta è più complessa: pur avendo una discreta dose di fortuna, ed essendo ovviamente una balla che sia un brocco, Zingaretti piace “proprio” perché è lontano dal cliché piazzista di ultima generazione. Piace in quanto anti-leader rispetto al cliché delle segreterie ansiogene e pervasive.

Al contrario dei “due Mattei” non si è formato nei quiz televisivi, e questo – diciamo – lo aiuta. Non è allarmista. Non comunica smania di apparire (e quindi non si logora alla velocità di un tweet). Non mette la sua faccia ovunque, ma fa giocare gli altri. Non immagina una strategia con il respiro di un post di Facebook, ma ha – al contrario – una vocazione quasi anacronistica alle visioni di lungo periodo. Al contrario dei “due Mattei” non è un corridore solitario circondato da “Yes men” e figurine mediatiche, conta gli iscritti e non i followers, è uno che si chiama intorno uomini di peso (come Gianni Cuperlo), che lascia spazio anche agli altri (vedi il ruolo di Andrea Orlando), che ha un maestro Jedi che lo consiglia (vedi i chaiers dalla Thailandia dell’Highlander Goffredo Bettini).

Invece di organizzare una Leopolda con quattro raggi laser e due slogan, ha messo su una relazione ambiziosa da comitato centrale del secolo scorso, invece di baloccarsi con le poltrone e il potere (non ha voluto entrare al governo) ha detto: “Adesso cambiamo marcia, e facciamo un salto di qualità”. Basta questo a cambiare faccia al Pd? Non di certo: tant’è vero che – a ricordare che l’infezione dei cacicchi non è finita con l’auto-bonifica dei quadri renziani promossa dalla scissione di Italia Viva – basterebbe la catastrofe della Liguria: quattro mesi passati dalla segreteria del Pd a convincere il M5s della bontà di una candidatura civica come quella di Ferruccio Sansa, poi si riunisce la segreteria dei miserabili boiardi locali e (come se niente fosse) fa le barricate contro la proposta (!) del partito nazionale.

Ma queste beghe Zinga le sa risolvere proprio perché nei partiti ci sta da quando ha i pantaloni corti, e quindi sa bene come si rivoltano i tavoli quando è bene che siano ribaltati. Certo che, se tutto questo è accaduto in meno di un anno, è davvero curioso capire come finirà la storia. È possibile che il darwinismo della politica possa produrre un nuovo predatore più evoluto che riesca ad estinguere il zingarettismo: di sicuro non saranno quelli che piacevano tanto alle firme chic come il simpatico sindaco di Milano, sponsorizzato da l’Espresso, o il solido governatore dell’Emilia-Romagna (sponsorizzato da tutti gli altri).

Il primo deve far dimenticare “Milano riparte”, il secondo è perfetto, ma con i noti confini territoriali, e l’eco di un vecchio anatema Comunista (“Mai ruoli apicali agli Emiliani!”). E questo non solo per il culo di cui sopra, ma perché l’Italia colpita dal Covid ha bisogno di rassicurazioni e certezze, non di fenomeni.

Se Ma-Zinga riuscirà a diventare l’alfiere di una modernizzazione improcrastinabile, che rimette nel canile degli azzeccagarbugli gli eccessi del Codice degli appalti, le follie dei burosauri (le casse integrazioni non pagate) e i tic degli Stranamore dei comitati tecnici-scientifici (quelli che volevano 4 metri di distanza nei bar e nei ristoranti) può darsi che riuscirà a liberarsi sia dell’avversativa che del trattino. Finirà ovviamente per piacere anche alla gente che piace – che arriva sempre per ultima a capire – e allora saranno davvero cazzi. Ma questa è un’altra storia. D’altra parte, anche se lui non ama ricordarlo, bisognerebbe spiegare anche che Mazinga ha fatto un’altra vittima eccellente tra i fenomeni di questi mesi: il Coronavirus.

Leggi anche: Il giovane Zingaretti: romanzo di formazione di un futuro Ieader a cavallo tra il Partito, Ingrao, Bettini e il muro di Berlino (di Luca Telese)

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