L’umanità di Los Angeles è più forte delle scorciatoie di Trump

Se oggi viene permesso (a Trump) di usare l’esercito per fermare gli immigrati, domani saranno le proteste contro il cambiamento climatico o la violenza di genere a essere trattate come nuove “insurrezioni”.
Quanto accade a Los Angeles scuote nel profondo i cardini della democrazia americana: l’invio di 2.000 soldati della Guardia Nazionale da parte del presidente Donald Trump, senza nemmeno attendere il consenso del governatore Gavin Newsom, è un atto ai limiti dell’incredibile. Giustificato, finora, come mera risposta a “insurrezioni” e “migliaia di arresti” ma che ha avuto invece effetti traumatizzanti su famiglie, comunità e istituzioni civili.
Nelle prime ore dell’alba del 6 giugno scorso, infatti, l’ICE (l’agenzia del Department of Homeland Security nata per rafforzare i controlli interni su immigrazione e prevenire minacce alla sicurezza nazionale) ha condotto una serie di retate in luoghi di lavoro e quartieri a Los Angeles, arrestando oltre 118 persone mentre ancora dormivano, spesso senza un mandato giudiziario. La narrazione dell’“invasione di criminali” si è subito infranta davanti alla realtà.
Le testimonianze raccolte dai media descrivono scene agghiaccianti: uomini tenuti in custodia senza che avessero accesso all’acqua o ai medicinali, donne e bambini sottoposti a interrogatori lunghi e senza alcun esito. Storie che raccontano la violenza di Stato in una città nota per l’inclusione e l’avanguardia. Lo schieramento di tende, mezzi blindati e militari ha trasformato luoghi iconici e celebri, da Hollywood a Compton, in scenari da zona di conflitto. Alcuni residenti hanno raccontato ai media locali di aver respirato gas lacrimogeni mentre raccoglievano rifiuti dai marciapiedi.
È l’immagine simbolo dell’arroganza di Trump e delle sue mani sugli apparati dello Stato: la collettività che ripulisce gli effetti generati dai capricci dei governanti.
Una giornalista australiana, Lauren Tomasi, è stata colpita da un proiettile di gomma, immagine drammatica di come perfino chi racconta la realtà possa essere visto come nemico.
Dal basso è partita una replica immediata. Le scuole hanno tenuto lezioni su “Know Your Rights”, conosci i tuoi diritti. Alcuni quartieri hanno organizzato ronde umane attorno a case di immigrati, mentre volontari avvocati hanno offerto il proprio supporto legale. L’associazione CHIRLA (Coalition for Humane Immigrant Rights of Los Angeles) ha riferito che i bambini vivono nel “trauma” e nell’incertezza.
Ma le immagini che arrivano da Los Angeles sono quanto di più distante dal mettere in atto una semplice protezione dell’ordine pubblico. La decisione di mobilitare la Guardia Nazionale — senza che lo richiedessero il governatore o il sindaco — è una mossa politica contro una “città santuario” il cui elettorato è (ancora) in buona parte convintamente democratico.
Il procuratore generale della California ha annunciato che adotterà una contromisura legale nei confronti dell’amministrazione Trump, appellandosi a una violazione del principio di sovranità dello Stato federale.
Il governatore Newsom ha definito l’intera operazione “illecita e immorale”, mentre il sindaco Karen Bass ha dichiarato: “Una città di immigrati come la nostra non può accettare politiche che seminano terrore nelle [nostre] comunità”.
La militarizzazione delle strade americane richiama episodi storici osceni: da Kent State al Massacro di Ludlow, quando l’esercito divenne strumento di repressione interna. Il Posse Comitatus Act del 1878 sancisce la separazione tra funzioni civili e militari, ma Trump ha aggirato la norma attivando la Guardia Nazionale sotto un presunto stato di emergenza.
Se oggi viene permesso (a Trump) di usare l’esercito per fermare gli immigrati, domani saranno le proteste contro il cambiamento climatico o la violenza di genere a essere trattate come nuove “insurrezioni”.
Dietro ai numeri ci sono persone reali: come Frank, un cuoco salvadoregno che vive “nella paura”, evitando di portare i figli a scuola per timore di azioni repressive nei confronti della sua famiglia.
Ma anche Cesar, 60 anni, che oggi rischia di essere sbattuto fuori e di perdere il lavoro nonostante sia tra chi da tempo si batte per porre rimedio ai devastanti incendi californiani. Ogni storia racconta di speranze spezzate, diritti negati, tensioni crescenti.
Trump respinge ogni critica, invocando il ritorno dell’ordine. Ma i fatti dicono altro: la maggior parte delle persone arrestate non ha precedenti penali. I dati, se mai, dimostrano un calo negli ingressi irregolari e dei crimini violenti.
È un paradosso, questo, che accomuna spesso le destre in Europa: la repressione usata come strumento reazionario per rassicurare una parte dell’elettorato senza davvero risolvere le cause profonde e reali dei problemi delle persone. Così anche a Los Angeles: il dissenso non è caos, è democrazia.
Non possiamo lasciare che la paura legittimi l’esercito contro le famiglie, che la silenziosa complicità normalizzi barriere e check‑point. Servono soluzioni umanitarie: corridoi sicuri, vie legali per il permesso di soggiorno, investimenti nei paesi d’origine.
La vista dei soldati in assetto bellico non è un segnale di forza: è un’ammissione di debolezza. Gli Stati Uniti hanno scelto la paura invece dell’accoglienza. Ma una città come Los Angeles può ancora scegliere diversamente: riempiendo piazze, scuole, tribunali, corridoi dei consolati, difendendo con i fatti chi già ha dato tutto, lavorando e costruendo. Perché in fin dei conti la democrazia non si preserva con i blindati, ma con la cura.