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    Con il Recovery Fund si condividono obiettivi e rischi: siamo pronti per gli Stati Uniti d’Europa

    Di Elisa Serafini
    Pubblicato il 21 Lug. 2020 alle 11:14

    Prima li hanno chiamati “paesi del Sud” contro i “paesi del Nord”: erano i tempi in cui si discutevano i piani di aiuti Europei e i possibili impieghi del MES. Poi è arrivata una nuova divisione lessicale: i “frugali” contro gli “ambiziosi”, nella fase di contrattazione del Recovery Fund. Da oggi, però, i Paesi possono essere semplicemente definiti europei. Membri di un processo di integrazione economico, sociale, culturale, politico. 

    Recovery Fund, l’Europa unita contro la crisi

    A chiudere mesi di tentativi di divisione, più lessicale, che reale, più social, che politica, è l’accordo sul Recovery Fund: 750 miliardi per aiutare i Paesi più colpiti dal Covid-19. L’accordo è arrivato nonostante le preoccupazioni dei Paesi Bassi, tacciati da molti di essere egoisti, nonostante fosse evidente che le diverse condizioni di conti pubblici, non avrebbero permesso un facile allineamento degli interessi. 

    L’Italia si porta dietro una difficile condizione dei conti pubblici, con un debito pubblico che ha superato 2.508 miliardi di euro, e un rapporto debito/PIL che passerà dal 138 per cento del 2018 a oltre il 155 per cento. Numeri del tutto diversi da quelli dei nostri colleghi europei, nell’Unione la media si attesta infatti all’83 per centoIl nostro Paese ha più volte infranto le regole europee: dagli aiuti di Stato (come nel caso di Alitalia), allo sforamento del deficit, ad alcune mancate liberalizzazioni (ad esempio nel caso della Direttiva Bolkestein). Misure come Quota 100 sono state fortemente criticate in sede europea, a causa delle pesanti esternalità negative che avrebbero creato sulla stabilità dei conti pubblici.

    Eppure, nonostante tutto – e nonostante sia mancato un reale piano di riforme – l’Italia, paese fondatore dell’Unione Europea, è stata sostanzialmente accontentata. Di questo risultato, Giuseppe Conte, dovrebbe ringraziare anche Emmanuel Macron, che per primo si è battuto, insieme ad Angela Merkel, affinché si potesse trovare un accordo condiviso, senza rischiare il veto nel Consiglio dei Paesi Bassi.  

    Nonostante le differenze, l’accordo sul Recovery Fund dimostra che il progetto di integrazione Europeo è più vivo che mai. La necessità di condividere i rischi ha prevalso sulla possibilità di disgregare lo spirito d’unione dei Paesi. Questo può essere accaduto anche per convenienza sia economica che politica: il veto dei Paesi Bassi avrebbe permesso ai sovranisti anti-Europa di continuare con la retorica della “guerra tra Stati”, e al tempo stesso un tracollo dei Paesi più vulnerabili avrebbe condizionato fortemente anche gli altri stati membri: uno scenario che non avrebbe fatto bene né al Paese, né agli equilibri europei. 

    Il nodo del MES e altri rischi

    Rimane da affrontare il tema del MES, il Fondo Salva Stati, da sempre osteggiato da Conte,  che in passato ha però dimostrato efficacia come sostegno e coadiuvante ad azioni di riforma, quantomeno nei casi di Spagna, Portogallo e Irlanda. Accettare o richiedere ulteriori fondi, attraverso il prestito MES non sembra, ad oggi, un’opzione gradita al Governo giallorosso, e il fronte del no è esteso anche a forze di opposizione, come Lega e Fratelli d’Italia. 

    Dal 1945 ad oggi, il processo di integrazione europea ha tagliato numerosi traguardi, con passi avanti e qualche passo indietro. La giornata di oggi, però, porta l’Unione Europea vicina a quell’idea di “Stati Uniti d’Europa” che regnava nei pensieri dei padri fondatori. Un insieme di forze e di Paesi uniti non solo in una condivisione di obiettivi, ma anche in quella dei rischi, perché è davvero solo così che un continente può vincere le sfide globali del nuovo millennio. 

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