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Lettera aperta a Gaetano Manfredi. Il tragico bivio di Napoli: o si cambia, o si muore

Immagine di copertina
Il neo sindaco di Napoli Gaetano Manfredi. Credit: Facebook Gaetano Manfredi

Caro Sindaco,

mentre nel mondo esplode la rivoluzione green, e si scende in trincea contro il cambio climatico, io le scrivo dal centro di Napoli, dove invece il tempo si è fermato e si fanno i conti con una realtà diversa. 

Qui, grazie a un traffico allucinante e un parco macchine preistorico, il livello delle polveri sottili supera costantemente la soglia massima prevista dalla legge, e quello acustico è addirittura il più alto d’Europa. Qui, nel cuore della grande metropoli del Sud, la terza città d’Italia, a pochi passi dal Museo Archeologico Nazionale (la più grande collezione al mondo di arte greco-romana), mentre si parla di rilancio, di turismo, del PNRR che dovrebbe cambiarci la vita, si annega nella sporcizia, nell’odore di piscio, nel caos generale. 

Non siamo in una periferia difficile o in chissà quali suburbi, eppure la qualità della vita è disperatamente bassa. I negozi chiudono. Sui marciapiedi sfrecciano biciclette e monopattini (ora si va in due pure su quelli). I pedoni ignorano i semafori, i cestini per le cartacce sono considerati cassonetti. Anche le aiuole sembrano minuscole discariche e i turisti, uscendo dal Museo, fotografano i senza tetto sotto i portici di quella perla che è (che sarebbe) la galleria Principe di Napoli. 

Qui si ha una sola certezza: quello che è guasto, guasto rimane, e quello che funziona, prima o poi si guasterà. Un senso di precarietà accompagna ogni momento della vita quotidiana. I mezzi pubblici hanno periodicità imprevedibile e i pannelli elettronici alle fermate dei bus sembrano messi per scherzo. La metropolitana passa con frequenza ridicola per le esigenze di una metropoli moderna, e fa orari da convento. Il parcheggio selvaggio è di un’arroganza indescrivibile.

E, se mi permette una citazione personale, a casa mia (palazzo affacciato su una delle strade più importanti della città, non su uno sperduto vicoletto), per uscire si rischia letteralmente la vita: come fossimo in guerra. Infatti, tra veicoli in sosta vietata, mancanza di marciapiede e assenza di paletti che proteggano i pedoni, si è costretti a camminare in mezzo al traffico, fra auto e motorini che sfrecciano con un’aggressività, una “cattiveria”, incredibile. 

Pensi cosa vuol dire una situazione del genere per un disabile, o per una mamma col figlioletto in carrozzino. Venga a farsi una passeggiata in centro: ma non nel minuscolo salottino del “centro antico” inventato da Antonio Bassolino, bensì nel vero centro, quello che va da Montesanto al Vasto. Qui si vive in condizioni che dovrebbero suscitare vergogna. Ma siamo a Napoli e il sentimento prevalente è ancora quello del dopoguerra. La vergogna si trasforma in un misto di orgoglio e autocommiserazione, e la smania di sopravvivere giorno per giorno, prevale sulla capacità di progettare un futuro diverso.

La gente strabuzza gli occhi e ripete ossessivamente, in preda a un’eccitazione dionisiaca, che questa è la città più bella del mondo, la capitale della musica, che qui è nato il bidè, che c’è il teatro più antico del mondo e si coltivano i friarielli. Che abbiamo il murale di Maradona, che il sangue di San Gennaro si è sciolto e siamo pure primi in classifica. Che se non c’è lavoro e c’è miseria la colpa è di quel ladro di Cavour, perché prima Napoli era un paradiso in terra. Che siamo un po’ pazzi, che siamo artisti, che siamo la città della fantasia… 

Il degrado è tale, che la Polizia manco ci fa caso alle famigliole che vanno in Vespa in tre, col bambinello in mezzo, rigorosamente senza casco. Se ne sorride, come fosse divertente. Ci dichiariamo, a chiacchiere, città dell’inclusione, ospitale e accogliente. Ma la favola è antica, il folklore è tanto, e la sostanza è zero. “Bla bla bla” direbbe Greta, e non cambia mai niente. Napoli non offre alcun servizio: non ci sono asili nido, non ci sono centri anziani, non c’è il resto di niente.

Nel giugno del 2011, scrissi una lettera aperta anche al neoletto Luigi De Magistris. E oggi, a dieci anni di distanza, la situazione è amaramente la stessa. Anzi, è peggiorata: Napoli è invivibile. 

Le faccio un esempio ispirato proprio al Museo Archeologico: la sfida vera non sta nell’aumentare i visitatori (un milione l’anno, ma potrebbe farne il doppio), ma nel riorganizzarne il flusso: gli autobus che trasportano i turisti, non possono sostare proprio davanti all’ingresso e restare là un paio d’ore, col motore acceso. Uno scempio simile, non avviene in nessun’altra città del mondo!

Lo stesso vale per il lungomare. La bolgia del “lungomare liberato” è una presa in giro. La sfida è avere un progetto globale in cui il lungomare (lo scrivevo già vent’anni fa) diventa davvero un volano del turismo: balneabile, attrezzato, capace di trarci fuori dal mito (troppo facile da cavalcare a chiacchiere) della città d’arte, e  di aprire la strada a una Napoli meta non di tocca e fuggi, ma di vacanze: ricca, pulita, organizzata, sicura. Moderna. Invece siamo immobili, schiavi del maledetto archetipo di una Napoli miserabile e felice, della quale il visitatore dovrebbe innamorarsi per magia: inventiamo assurdità come i comitati di benvenuto al porto, con i volontari che offrono sfogliatelle, e poi un turista non sa come andare dal centro storico a Posillipo…

Io spero, caro sindaco Manfredi, che lei, dopo i dieci anni di slogan demenziali del suo predecessore, sceglierà a qualunque costo di essere il sindaco dei “fondamentali”. Il sindaco del rimbocchiamoci le maniche e partiamo dalla realtà, non dai sogni. Da ogni  parte, in questa campagna elettorale, si è sentito parlare della vocazione di Napoli allo straordinario.

Lei stesso, nel discorso tenuto dopo la plebiscitaria vittoria, ha celebrato il talento innato dei napoletani: ma ora bisogna canalizzarlo. Perché Napoli si salvi, bisogna partire dalle fondamenta. Aree verdi, aree pedonali, trasporti efficienti… Faccia sì che i napoletani s’innamorino della Normalità con la N maiuscola, questa sarebbe la vera rivoluzione. Vedere il carico e scarico delle merci avvenire negli orari previsti, i proprietari di cani che raccolgono le cacche, gli automobilisti che rallentano davanti alle strisce pedonali, i vigili, gli spazzini e i manutentori che fanno con disciplina e passione il proprio lavoro, piste ciclabili realizzate solo se e dove è possibile, e non piste immaginarie e pericolose, disegnate coi gessetti in vicoli dove non si passa manco a piedi… 

Il problema di Napoli, e lo dico da scrittore e da ex editore che ha lunga e assidua frequentazione professionale del nord (proprio pochi giorni fa ho moderato un incontro a Modena con Bonaccini e la Confapi Emilia, e mi veniva da piangere pensando alla differenza che ci separa su tanti piani dalle regioni “normali”), non è avere un festival del libro decente, o un evento culturale in più, o essere madrina di iniziative di innovazione sociale e di accoglienza che rimangono atrocemente sulla carta. Questo verrà.

Ma adesso bisogna combattere il populismo, i falsi miti, il delirio di onnipotenza che ha messo la città in ginocchio. Basta parlare di “sogni”. Sognare è bello, ma svegliarsi lo è ancora di più. 

L’Occidente è a una svolta epocale e per Napoli è l’ultima chiamata. Serve un cambio radicale, e serve adesso. 

Faccia come Ulisse. Si metta i tappi nelle orecchie, si faccia legare all’albero maestro e non ceda alle lusinghe delle sirene. In una città difficile, brutale e mostruosamente indebitata come Napoli, sembra quasi inevitabile rintanarsi fra slogan, farina e feste: ma lei può passare alla storia come il “pater patriae” che fece capire alla gente la differenza fra l’ottimismo e la speranza. 

Perché la speranza porta all’illusione, mentre l’ottimismo porta all’azione. Tonino Vella, eroico sindaco di Monteverde, un piccolo centro dell’Irpinia premiato dall’Unione Europea per le sue straordinarie iniziative sull’inclusione, mi disse “fare la cosa giusta è facile, basta andare incontro ai bisogni della gente”. 

Venga incontro ai bisogni veri di Napoli, sindaco. Faccia capire ai napoletani che amare la propria città, significa amare prima di tutto l’ordine e l’efficienza. 

Perché, senza la normalità, la fantasia non ha alcun senso. 

Nemmeno a Napoli.

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