Il martirio di Gaza tra allarme genocidio e pulizia etnica (di F. Bascone)
Si può discutere se ferire a morte sia molto diverso da uccidere e come chiamare oltre un anno di flagellazione della Striscia. Ma in ogni caso l'indulgenza di Usa ed Europa è ingiustificabile e contribuisce a scavare un fossato fra l'Occidente e il resto del mondo
La recentissima presa di posizione di Amnesty International, dopo quella di Papa Francesco, ha ravvivato la discussione sulla applicabilità del concetto di genocidio agli orrori di Gaza.
In prima approssimazione appare condivisibile l’opinione dissenziente della sezione israeliana di Amnesty, secondo cui l’azione punitiva che Israele va conducendo contro la popolazione della Striscia di Gaza costituisce una serie di crimini di guerra e contro l’umanità, compresa la pulizia etnica, ma non un genocidio.
Perché si possa parlare di genocidio è essenziale non il numero delle vittime civili ma l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico. Quando i nazisti andavano a caccia di individui inoffensivi per ucciderli solo perché di discendenza ebraica, non per impossessarsi dei loro averi (li avevano già depredati) o delle loro terre (non ne avevano) erano evidentemente guidati da questa intenzione di sterminio.
Diversa è la finalità della sanguinosa campagna condotta da Tsahal a Gaza, anche se sarebbe riduttivo definirla come una azione anti-guerriglia con un livello eccessivo di “danni collaterali“ (questa è in sostanza la valutazione troppo blandamente critica dei governi amici, americano ed europei).
Pure condivisibile è la contrarietà di quasi tutti gli ebrei della diaspora, anche i più progressisti, all’uso del termine “genocidio” in relazione a questo e altri massacri, non in quanto demonizza Israele ma perché rischia di offuscare l’unicità della Shoah.
Nella nostra epoca, in effetti, l’Olocausto pianificato e perpetrato dai nazisti, sul quale è stato in seguito ricalcato il concetto di “genocidio”, non ha uguali. Gli unici altri casi cui può essere ragionevolmente applicato (senza raggiungerne le dimensioni) sono la strage dei Tutsi in Ruanda (1994) e la deportazione e soppressione degli Armeni nell’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale (1915).
Si può discutere se rientri in questa categoria anche lo sterminio degli Amerindi in Nord America, nei Caraibi e in alcuni Paesi del Sudamerica. L’effetto – scomparsa di una etnia – fu equivalente a quello di un genocidio, ma l’intenzione era quella di impossessarsi delle terre delle popolazioni indigene piuttosto che di sfogare un odio razziale. È dunque più corretto parlare di “pulizia etnica”. Sicuramente improprio è applicare il concetto di genocidio a conflitti di classe, e non etnici, come il “Terrore degli Khmer Rossi” e la campagna di Stalin contro i kulakì (quella che oggi gli ucraini chiamano “holodomor” e interpretano come diretta solo contro il loro popolo).
Volontà di annientamento
Nell’antichità non sono rari i casi di distruzione sistematica di un popolo da parte di una potenza imperiale – non esclusa quella romana – come reazione ad una ribellione ostinata o ripetuta. Ne è stato vittima lo stesso popolo ebraico, più di una volta, e ha rischiato di scomparire. Ciò è effettivamente successo, nell’ottavo secolo a.C. a dieci delle 12 tribù, quelle che a seguito di una scissione costituivano il Regno di Israele: debellate dagli Assiri, vennero deportate in massa e disperse in lontane province dell’Impero. Nel territorio vennero insediati coloni che si fusero con i pochi pastori ebrei rimasti, incapaci di mantenere in vita la loro tradizione religiosa. Le due tribù superstiti consideravano quella gente, i samaritani, dei lontani cugini, non degli israeliti. Poco più di un secolo dopo, furono investite dallo stesso destino, ma la Provvidenza volle che venissero deportate non in zone remote bensì nelle città dell’Impero Babilonese (dove sono sopravvissute fino alla metà del secolo XX) e che, dopo un paio di generazioni, i loro oppressori fossero sostituiti da padroni più tolleranti: i Persiani permisero infatti agli ebrei più nazionalisti di tornare in Giudea e costruire una riedizione (più modesta) del Tempio di Salomone, insostituibile pilastro della identità nazionale e statuale.
Proprio per questa sua funzione il Tempio venne distrutto dai Romani, nel reprimere una lunga e sanguinosa ribellione (70 d.C.). Un duro colpo per l’identità nazionale e la volontà di indipendenza del popolo ebraico, ma non decisivo. Fu Adriano, a seguito di una nuova ribellione, a decidere di cancellare la presenza di quel popolo in Palestina, radendo al suolo la città di Gerusalemme (133 d.C.), costruendo al suo posto una città romana ed erigendo un tempio dedicato a Giove sulle rovine di quello demolito da Tito. Una specie di “damnatio memoriae”. I vinti non vennero tutti uccisi ma ancora una volta puniti con la dispersione (“diaspora”) in varie province dell’impero di turno (e nella stessa Roma). Però la volontà di annientare un popolo attraverso lo smembramento e la privazione del suo territorio c’era, dunque si può parlare, in senso lato, di genocidio.
Questione semantica
Non molto diversa è la minaccia che incombe oggi sul popolo palestinese, almeno nei piani della componente più estremista del governo di Gerusalemme. Nella parte settentrionale della Striscia di Gaza la pulizia etnica è un obiettivo dichiarato. Al momento dell’invasione si era addirittura pensato di spingere tutta la popolazione a fuggire nel deserto del Sinai (dove molti sarebbero morti di fame e di sete, come nel 1915 gli Armeni durante l’esodo verso Deir ez-Zor), cosa che naturalmente l’Egitto non poteva permettere. La Cisgiordania, nella visione di Netanyahu, è destinata all’annessione in regime di apartheid, ma i potenti ministri Ben Gvir e Smotrich puntano anche qui ad una graduale pulizia etnica, e infatti incoraggiano i coloni a vessare e terrorizzare la popolazione locale nel tentativo (vano) di spingerla ad emigrare. La pulizia etnica non è genocidio, ma è solo un gradino sotto.
Anche i 45mila morti di Gaza non costituiscono di per sé un genocidio. Ma se aggiungiamo i centomila feriti, le case, scuole e infrastrutture distrutte, gli ospedali inagibili, i medici e infermieri mancanti perché uccisi dai bombardamenti, l’inquinamento dell’ambiente, gli ostacoli posti alla attività dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) e all’afflusso di cibo, medicinali e acqua potabile, lo stress causato dai bombardamenti e dalle ripetute evacuazioni forzate, siamo di fronte quanto meno ad una massiccia punizione collettiva, che è un crimine di guerra, ma appare plausibile che ci sia, come denuncia Amnesty International, anche una precisa intenzione di minare la salute e la vitalità di tutta una popolazione.
Si può discutere se ferire a morte sia molto diverso da uccidere, se la flagellazione inflitta da oltre un anno alla popolazione di Gaza sia molto diversa da un genocidio. In fondo è una questione nominalistica. In ogni caso l’indulgenza dell’America e degli europei è ingiustificabile. E contribuisce a scavare il fossato fra Occidente e resto del mondo, a rendere vani i tentativi di isolare la Russia per i crimini che commette in Ucraina.