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    Le 24 ore che possono cambiare per sempre la storia dell’Europa

    La presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen. Credit: EPA/STEPHANIE LECOCQ
    Di Luca Telese
    Pubblicato il 8 Apr. 2020 alle 17:23 Aggiornato il 8 Apr. 2020 alle 18:37

    Coronabond o Mes? Le 24 ore che possono cambiare la storia dell’Europa

    Vertice “rinviato”. Nell’eurolingua delle burocrazie e dei comitati decisionali di Bruxelles ci sono dei “rinvii” che sono sinonimo di cattive notizie. Ed è questo il caso dell’Eurogruppo forse più importante dalla riunificazione della Germania ad oggi: quello che deve decidere dei provvedimenti per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Come è noto, la Commissione è radicalmente divisa, ormai da due settimane e vive al suo interno (sia pure con rapporti di forza leggermente mutati) le stesse contrapposizioni andate in scena nella riunione precedente dei leader: i commissari e i primi ministri di Italia, Francia, Spagna e Portogallo – a partire da Paolo Gentiloni – a favore di un piano europeo per la ripresa finanziato da risorse europee messe in comune, mentre quelli di Austria, Paesi baltici e (purtroppo) la presidente Ursula Von der Leyen (che ha sentito il richiamo della foresta della madrepatria tedesca), sono freddi o contrari a qualsiasi intervento di tipo mutuale.

    L’Eurogruppo di ieri è iniziato in ritardo perché si combatte da giorni, tra gli sherpa, sulla bozza di accordo. La parola d’ordine della Von der Leyen, adesso è la stessa scelta per combattere l’idea dei “Coronabond” lanciata dal governo italiano: lo chiamano “Recovery Plan” ed è un finanziamento legato al bilancio dell’Unione ossia ai fondi europei. Attingere ai fondi significa ridurre l’intero pacchetto di aiuti per la crisi indotta dal Covid-19 a poco più di un lifting rispetto a quanto era stato preventivato. Il che è una follia, se si pensa che solo gli studi di UniCredit prevedono un crollo di Pil del 13% per l’area euro (circa 1.600 miliardi di euro di redditi cancellato per gli effetti della crisi).

     

     

    Quanto al “Sure”, il piano di sostegno del lavoro che tanto appassiona la Von der Leyen, ha dei limiti di capienza enormi: basta pensare che nel nostro paese l’intero stock previsto dal piano può servire ad erogare poco più di quattro settimane di cassa integrazione (di fatto lo abbiamo già virtualmente esaurito). Fra l’altro il nostro governo può attingere solo al 20% dell’intero ammontare del fondo: per poterlo fare, tuttavia, deve anche fornire garanzie per 5 miliardi miliardi di euro, e questi fondi avrebbero una linea di restituzione privilegiata rispetto alle altre forme di finanziamento.

    Il punto che si deve sciogliere tra oggi e domani, dunque è il quanto e il come. E Germania e Olanda hanno una ricetta in tasca in proposito: usare lo strumento del Mes ma senza perdere le “condizionalità” (come vogliono i paesi del Sud). Il che significa non rinunciare mai ad un controllo delle spese da parte della Commissione. Ma il Mes è uno strumento vecchio e pensato per crisi di tipo economico, ed è limitato al 2% del prodotto (Pil) del Paese che chiede di potervi accedere. Il primo dubbio, dunque, è questo: quanto può incidere sulla crisi, se ogni paese europeo perderà mediamente l’11% del suo prodotto interno?

    Di qui il rischio – paventato da molti, e non solo dai sovranisti, che anche il congegno possa diventare un cavallo di Troia in una scatola cinese: metti che il tuo governo accetti il primo prestito del Mes con una “condizionalità ridotta”, ma subito dopo debba richiederne di nuovi, e di entità maggiore, e finire stretto nella morsa di una vigilanza progressiva ed incombente: alla fine di questo tunnel c’è il modello trojka. E alcuni dei più esagitati esponenti dell’Europa del nord non fanno mistero di considerare questo meccanismo non come un effetto collaterale, ma come una necessità per proteggersi dai desideri di assistenzialismo che immaginano nascosti, nei paesi dell’Europa del sud, dietro i conteggi dei morti e i numeri dell’emergenza Covid.

    La condizionalità richiesta, dunque, sarebbe la firma di un Memorandum d’intesa che pur diverso da quello firmato a suo tempo dalla Grecia, esigerebbe vincoli e controlli di Bruxelles sui bilanci degli Stati. Per questo il ministro Roberto Gualtieri ha ribadito anche ieri: “L’unico Mes che l’Italia può accettare è con condizioni azzerate” (ma perché questto accadesse bisognerebbe modificare un trattato). In assenza di un accordo sul salva-stati, quindi, l’unica convergenza che si è registrata, per ora, è quella sulla Bce. Si tratta del nulla osta al fondo di emergenza della Banca europea per gli investimenti che (pur dopo ulteriori 25 miliardi di garanzie) si propone di mobilitare, indirettamente, 200 miliardi di prestiti alle imprese.

    Ma il resto? Un bel dilemma. Ecco perché i paesi del sud hanno un bisogno vitale che l’eventuale “Recovery Plan” deciso domani sia definito da una condizione discriminante: ovvero finanziato con risorse comuni, e con entità di spesa più vicine ai deficit che la crisi lascia intravedere già adesso in tutti gli studi. Il che significa che questa cifra deve avvicinarsi al 10%, piuttosto che al 2%. È per questo motivo che la Germania sta cambiando strategia: da quando ha iniziato a perdere alleati (ad esempio con il passaggio di Belgio e Lussemburgo al fronte del bond) manda avanti i falchi olandesi a fare la voce grossa, e cerca di rinviare ed annacquare il più possibile. Non è detto che il tempo giochi a suo favore nel lungo periodo (i contagi e le vittime – è triste dirlo – sono ormai arma di persuasione) ma nel breve consente alla Merkel di evitare il rischio politico più grande: finire in minoranza ed isolata.

    A Berlino sono tante le voci a favore di una solidarietà europea (l’ultimo, intervistato da Paolo Valentino sul Corriere della sera è stato l’ex cancelliere Schroeder) ma il timore della Cdu è che ogni allentamento del cordone porti voti all’ultradestra di Afd in vista delle prossime elezioni. La bestia nera del fronte pro-bond ha il nome impronunciabile del ministro olandese Wopke Hoekstra, che continua a minacciare di opporre veti. Tutto questo minoritario ma agguerrito fronte del “No” – i tedeschi, gli austriaci e gli olandesi – sembra ignorare lo stato d’animo delle opinioni pubbliche, esasperate, ferite, e poco inclini a comprendere un discorso di egemonia rigoristico-nazionalista: laddove ha fallito la critica dei sovranisti a Bruxelles, infatti, potrebbe riuscire il Coronavirus. E il no alla solidarietà è il vero virus che può dissolvere – dopo tanti anni di sacrifici e conquiste – una idea comune dell’Europa. La posta in gioco delle prossime 24 ore è questa, e il rischio che la Germania e i suoi alleati si stanno sobbarcando va oltre quello della normale negoziazione. La rabbia, infatti, non conosce la parola “rinvio”.

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