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Cingolani annuncia che il suo lavoro al governo è finito, ma viene da chiedersi quando mai sia iniziato

Immagine di copertina
Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Credit: Ansa

Il tecnico se ne va. Meno di un mese fa ci spiegava che avevamo bisogno di formare nuove figure professionali per cavalcare il nuovo millennio, e aggiungeva che bisognava smettere di studiare le guerre puniche a scuola. Oggi il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani annuncia che se ne vuole andare dal governo. E lo spiega con un’altra frase da antologia: «Abbiamo centrato gli obiettivi posti da Draghi prima del compimento dell’anno. Ora c’è un problema di implementazione. E questa fase non ha bisogno di uno con il mio profilo». Cult.

S&D

Dunque lui, Cingolani, ritiene di avere già compiuto la missione, impostando il lavoro. Adesso basta che arrivi qualcuno in grado di gestire “l’implementazione“ delle poderose riforme messe in campo (quali?) in materia energetica e ambientale, e tutto si risolverà da se.

Farà sicuramente discutere questa frase che il ministro ha pronunciato in un’intervista a Staffetta Quotidiana, una testata di settore specializzata sui temi dell’energia e della sostenibilità, che fra l’altro lo aveva appena incoronato uomo dell’anno. Ma nulla da fare: Cingolani spiazza, e non solo perché la sua sembra una parafrasi in lingua manageriale della celebre battuta di Gloria Swanson in “Viale del tramonto” di Billie Wilder: “Io sono ancora grande. È il cinema che è diventato piccolo per me”.

Farà discutere – la frase shock del ministro – perché sembra che il discorso di fine anno di Mario Draghi abbia innescato nella sua squadra degli effetti emulativi che il presidente del Consiglio non aveva previsto. Ma che sono inevitabili. Se infatti il premier tecnico che doveva salvare il Paese, può sostenere di non essere più indispensabile “una volta impostato il lavoro”, non è normale che anche gli altri tecnici posano subire la stessa tentazione? Ecco perché non è casuale che il ragionamento con cui Cingolani ha dichiarato compiuta la sua missione ed esaurito somigli così tanto a quello di Draghi.

Tuttavia, nel caso del ministro della Transizione ecologica è anche lecito chiedersi quale sia il lavoro così felicemente impostato “da implementare”. Le bollette, dopo i picchi di questa estate, hanno sfiorato qualsiasi record, senza che nessuno nel suo ministero abbia mostrato capacità previsionale o di intervento tempestivo.

L’Italia è costretta a considerare la riattivazione delle centrali a carbone. L’esplosione del costo dell’energia sta terremotando l’industria. Di quali mirabolanti risultati parla il ministro? Forse, di fronte a queste obiettive difficoltà, il fisico-manager arruolato da Leonardo un po’ rimpiange i bei tempi in cui faceva il dirigente di azienda (con retribuzioni di mercato, non certo i 4mila euro al mese da ministro) e non aveva il fiato dell’opinione pubblica sul collo. Così, dopo le parole di Draghi sul «mandato realizzato» e sul governo che «può andare avanti chiunque lo guidi» anche lui si sarà fatto i suoi conti.

Secondo Cingolani, i compiti assegnati dal presidente del Consiglio erano sostanzialmente tre, e nell’intervista a Staffetta lì riassume così: «Scrivere il Pnrr, o almeno contribuire pesantemente visto che la transizione ecologica è centrale per il successo del piano, per la sua approvazione, per il suo finanziamento e per la bella figura dell’Italia».

Questa missione, spiega il ministro, «credo sia andata bene. So come scrivere un programma tecnico e ho un’esperienza manageriale che mi è stata molto utile». Poi il secondo obiettivo: costruire una nuova struttura ministeriale. Anche in questo caso, assicura Cingolani «la capacità organizzativa e manageriale è stata utile. Quando sono arrivato il ministero aveva un bilancio annuale di 1,2-1,3 miliardi, quasi tutte spese fisse. Oggi, e per i prossimi 5 anni, il bilancio è da 16-17 miliardi. Siamo diventati più simili a una società quotata».

Terzo bersaglio raggiunto: le semplificazioni. «Abbiamo fatto tutto da febbraio a dicembre», osserva, «si poteva essere più veloci, ma come risultato non è male». Non c’è bisogno di fare i modesti. Perché subito dopo, nell’intervista, Cingolani ci ricorda sommessamente di aver portato a casa il G20 («un successo globale che ci è stato riconosciuto in tutto il mondo») e la Cop26. Un vero e proprio miracolo. E dire che non c’è ne eravamo accorti.

Forse il ministro, nel tratteggiare il suo idilliaco bilancio, non ha prestato attenzione a quello che, proprio ieri, spiegavano in un appello disperato la principali associazioni imprenditoriali italiane: “Stiamo fronteggiando il più drammatico aumento dei costi delle commodity energetiche della storia”, denunciano le associazioni. E subito dopo chiedono: “Serve un intervento urgente del governo”.

Nel fare questo le imprese ricordano alcuni numeri che danno il senso della tempesta tariffaria in atto: “Il costo dell’elettricità sul mercato è salito del 280% dal gennaio 2021 e del 650% dal gennaio 2020, mentre il costo del gas naturale ha toccato solo una settimana fa il suo record storico, con una corsa del 670% negli ultimi dodici mesi”.

Il fatto che nell’ultima settimana il prezzo del gas sul mercato europeo sia sceso di oltre il 40% non tranquillizza gli imprenditori, “perché gli analisti prevedono un ritorno a livelli più vicini alla fase pre-covid solo a inizio del 2023”. Non è un caso che l’allarme sia stato lanciato ieri: fra due giorni verranno annunciate le nuove tariffe di luce e gas da parte dell’Authority per il primo trimestre dell’anno, dove si prevedono aumenti tra il 40 e il 50% solo in minima parte “sterilizzati” dai 3,8 miliardi già stanziati dal governo.

Le imprese manifatturiere sostengono che gli aiuti sono stati, per ora, rivolti soprattutto «agli utenti domestici, mentre ora occorrono interventi immediati per le imprese, per mitigare gli effetti devastanti del costo impazzito del gas naturale”. A firmare l’appello ieri, erano un gruppo di imprenditori autoconvocati, che si sono sono dati apputtamento, simbolicamente presso la fonderia di Torbole, in provincia di Brescia. Tra i sottoscrittori c’erano i rappresentanti di Anfia (filiera dell’industria automobilistica), di Assocarta, di Confidustria ceramica, di Assovetro e Assomet (metalli non ferrosi), oltre ad Assofond, padrona di casa.

Un conglomerato di imprese che oggi dà lavoro a 350mila persone, il doppio con l’indotto, per 88 miliardi di valore aggiunto e 55% di export. E l’ultimo paradosso è questo: si tratta di aziende che sono tutte in piena produzione, proprio quelle che stanno trainando il rilancio del nostro prodotto interno lordo.

Ma evidentemente, dopo i grandi successi del ministro manager, per risolvere problemini di questa portata, dopotutto, può bastare solo un buon “implementatore”.

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