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Enrico non sta più sereno: il campo largo si è fatto strettissimo (di L. Telese)

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Credit: Aleandro Biagianti - Agf

Con la demolizione dell’alleanza giallorossa il Pd rischia il cappotto dal centrodestra in tutti i collegi

Nulla di quello che i politici vi stanno raccontando in queste ore è vero. E il massacro delle liste di martedì scorso è solo un prologo della strage che si celebrerà nelle urne.

Pensate a una campagna elettorale – la più pazza del mondo, la prima in cui si vota a settembre – che si gioca intorno a una clamorosa bugia, a un drammatico non detto, e a un dato di fatto scioccante. Ed eccoli, messi in fila, questi inganni, nella loro disarmante sequenza.

Il non detto è che in questa partita il centrosinistra gioca fin dall’inizio per perdere. La bugia è che – come in “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie – alla fine tutti gli attori, per motivi diversissimi, hanno partecipato a questo singolare delitto (nascondendolo, male, per ingannare gli elettori). Il dato di fatto scioccante è che dopo il 25 settembre, all’opposizione, solo pochi miracolati scampati al massacro elettorale ripartiranno dalla macerie in uno scenario da dopobomba. E così – salvo colpi di scena – il centrodestra, per la prima volta negli ultimi venti anni, godrà di una maggioranza bulgara.

Cosa direbbero poi, gli elettori, se potessero leggere questa raffica di paradossi?

1) Giorgia Meloni e i suoi alleati saranno agevolati da una legge truffaldina costruita nel 2014 da Renzi per assicurarsi una maggioranza (di seggi) con una minoranza (di voti) e per mettere in difficoltà il M5S. Nel 2018, per un clamoroso errore di calcolo alla sua prima applicazione e per via di un imprevedibile successo del M5S (cappotto nei collegi, soprattutto al centro sud), il Rosatellum ha ottenuto l’effetto opposto a quello sperato. E ha rotto il meccanismo del bipolarismo che era in vigore dal 1994.

Oggi la stessa legge 2) produrrà un doppio paradosso: regalerà la quasi totalità dei collegi uninominali al centrodestra, realizzando per la prima volta un “effetto-doping” legato alle divisioni di quello che un tempo veniva chiamato “campo largo”. Persino Ettore Rosato, il padre della “legge truffa” che porta il suo nome, fu trombato alla prima applicazione e ripescato solo grazie al proporzionale. Rosato per giunta – oggi candidato in Italia Viva – rischia di restare fuori anche stavolta, per via del cosiddetto “effetto Flipper” 3) che rompe il rapporto tra eletti ed elettori con una dinamica perversa: i meno votati hanno più possibilità di essere eletti.

I partiti 4) hanno costruito un doppio meccanismo di privilegio intorno ad un combinato disposto di leggi e decreti. Chi è fuori dal Parlamento 5) per presentarsi è costretto raccogliere 70mila firme in piena estate, senza poter ricorrere alle firme digitali (cosa che invece è possibile per i referendum). Chi è già dentro in Paramento, invece, si è (auto) esentato con una leggina farlocca che gli permette di presentare le liste senza sforzi.

L’unico partito 5) che ha fatto uno spot contro questa legge elettorale anti-democratica (Il Pd!) è quello che sei anni fa l’aveva voluta ed imposta al Paese.

6) La regola perversa delle liste bloccate (che è il cardine del Rosatellum) consegna ai leader di ogni partito il potere di vita o morte su eletti e trombati. La cancellazione del voto disgiunto 7) vanifica il meccanismo di opinione del collegio uninominale: se voti un candidato è come se votassi il partito e viceversa.

Quindi 8) si verifica – come accadde per Renzi – un ulteriore paradosso: il segretario che perde (e che quindi, ragionevolmente, dopo una sconfitta se ne va) lascia gruppi parlamentari di miracolati costruiti a propria immagine e somiglianza, ad un nuovo leader che – come accadde a Nicola Zingaretti nel 2018 – non può decidere la sua linea tra gli eletti.

L’harakiri dei dem

Adesso provate a ricostruire la storia dell’ultimo anno e mezzo: un governo (quello giallorosso) che aveva recuperato il divario con il centrodestra (in tutti i sondaggi) viene ucciso da una manovra di Palazzo. Questa manovra, di cui il principale artefice è Matteo Renzi, distrugge anche la leadership del Pd con cui era nato il governo (lo stesso Zingaretti, che si dimette poco dopo il voto).

Dopodiché salta il suo candidato premier designato, Giuseppe Conte, che è costretto a trincerarsi nel M5s. Manovre successive, piccoli atti di bullismo di Draghi sui provvedimenti bandiera del M5S (la lotta contro il super bonus e il reddito di cittadinanza) produrranno anche una scissione che indebolisce il principale partito di governo, il M5S, e innesca la crisi del governo. «Draghi è scappato per non affrontare la crisi di autunno», spiega con una battuta ustoria, in un pomeriggio alla Versiliana, Giorgia Meloni. L’unica cosa certa è che si va al voto il 25 settembre per impedire che il malcontento per la crisi autunnale impatti sul voto.

Ed è questo punto che il centrosinistra sceglie inopinatamente di fare harakiri. Il primo passo è un veto che Letta pone come condizione preliminare: «Il M5S non può allearsi perché non ha votato la fiducia a Draghi». Una scelta priva di senso logico: in primo luogo perché nulla obbligava Conte a subire il mobbing sui provvedimenti-simbolo del suo Movimento, che Draghi si era impegnato a rispettare. E poi perché Letta decide di costruire comunque l’alleanza con Sinistra Italia, che pure ha votato 55 volte contro Draghi.

Ma il racconto del big bang che ha fatto saltare il nuovo centrosinistra senza M5S, al suo primo giorno di vita (un record, alla voce “catastrofi”) è ancora più incredibile. Potrebbe iniziare dal martedì sera in cui Carlo Calenda, in uno studio de La7 mi guarda e mi dice: «Non dormo da due giorni, ma non posso che essere soddisfatto. Abbiamo stravinto su tutto quello che ci stava a cuore. Abbiamo imposto la nostra linea al Pd». In quelle ore ha ragione. Il leader di Azione ha appena siglato il suo patto, dopo tre giorni di trattativa, posato per le foto di rito con Enrico Letta e le sue capogruppo, mano su mano. Volti sorridenti, grandi pacche sulle spalle. Frasi solenni.

In effetti Calenda, in quella giornata di sorpresa generale, nel mondo della politica, ha dettato al leader dem condizioni clamorose: non c’è un leader di coalizione («Letta non può esserlo», aveva detto con un diktat) ma solo «due front Runner» (uno dei due è Calenda). Il leader di Azione ha ottenuto il 30 per cento dei candidati rispetto al 70 per cento del Pd.

E – soprattutto – rivendica come merito il fatto che non esista una coalizione unica, ma solo “accordo tecnico” (lui lo chiama così) a due velocità: «Con Fratoianni e Bonelli non salirò mai sul palco!», dice in diretta quella sera. E spiega: «Loro sono un problema del Pd. Se Letta pensa che siano utili, se li gestisca lui. Per me loro non esistono!». Non c’è nemmeno un programma comune, ma solo una dichiarazione di intenti a due. E infine un feticcio: «Dobbiamo sventolare – dice Calenda – l’agenda Draghi». Altra perla: si combatte in nome di un documento che materialmente non esiste. Memorabile vignetta di Osho con un dialogo tra Fratoianni e Zingaretti: «Dove si compra?». E il leader Dem: «Secondo me da Buffetti ce l’hanno».

Non ci sono nemmeno Ieader nei collegi uninominali perché il veto di Calenda sul M5S stelle e Sinistra Italiana ha prodotto due effetti assurdi: il primo è che Fratoianni ha fatto un passo indietro – rinunciando al suo collegio per consentire l’accordo («Non faccio elemosina, correrò nel proporzionale del mio partito»). Il secondo effetto è che Luigi Di Maio (la cui lista è a rischio quorum) viene costretto ad una pratica umiliante: il cosiddetto “diritto di tribuna”, un posto garantito nelle liste del Pd. Proprio lui, che ha fondato con la benedizione di Letta una sua lista, per portare voti all’alleanza (“Impegno civico”, detta “l’Ape”) sarebbe costretto – per via di quel veto – a correre in un’altra. «È una umiliazione insostenibile per noi», mi spiega il ministro ex M5S allibito.

Persino Conte è sorpreso. E il giorno dopo mi dice: «Non è un’alleanza – osserva – ma una follia. Una ammucchiata». Dopodiché Conte aggiunge sibillino: «Mi dici cosa sarebbe accaduto se io avessi candidato Renzi nelle mie liste, subito dopo la sua scissione dal Pd? Qual è la vera partita di giro? Forse è la restituzione di un favore?». Di nuovo fantasmi, retroscena indicibili. Sospetti. Veleni.

Ma la settimana successiva, nel giorno in cui il secondo pezzo dell’alleanza a due velocità avrebbe dovuto prendere corpo, dopo un incontro solenne tra Enrico Letta e i due leader del polo rossoverde, tutto salta per aria. Solo la sera prima il segretario del Pd aveva detto ad un compagno di partito: «Vedrai, questo accordo andrà bene anche alla sinistra. Il patto con Calenda ci serviva per provare a vincere nei collegi, per dare un messaggio positivo». Calenda, invece, è convinto che tutto salterà per aria perché Sinistra Italiana scoppia. Sbagliano entrambi.

Il leader di Azione, per essere sicuro dello strappo altrui, parla di «fare subito il nucleare, tre nuovi rigassificatori e nove inceneritori da metterei nel programma di governo e realizzare». A queste condizioni presentarsi di fronte agli elettori, per i candidati di Di Maio e dei rossoverdi sarebbe, come marciare nudi contro una mitragliatrice. In realtà è anche Azione a soffrire. Maria Stella Gelmini spiega: «Chi mi vota se mi candido con Fratoianni?». Calenda – che punta su di lei e sulla Carfagna come punte di diamante – sta piantando paletti proprio per far saltare il secondo pezzo dell’accordo: dice che «l’agenda Draghi è l’unica bussola da seguire».

Persino Benedetto Della Vedova, braccio destro della Bonino ammette l’evidente sovrastima della lista Azione-+Europa: «È vero. Abbiamo più candidature. Ma perché abbiamo spiegato al Pd che noi siamo decisivi in 24-30  collegi!». Chi dice che sia vero, però? Su che base demoscopica? Mistero. Mercoledì è il giorno in cui Fratoianni e Bonelli annullano l’incontro con Letta per protesta. E Conte apre una porta ai due leader: «I rossoverdi potrebbero candidarsi con noi!». Diversi pontieri, tra i contiani, offrono a Sinistra e Verdi l’apparentamento con la lista del M5S.

E intanto esplode sui social la rabbia degli elettori del polo rossoverde e di tanti elettori della sinistra dem: per due giorni, mercoledì e giovedì le pagine dei dei due partiti sono intasate da centinaia di messaggi che chiedono di non accettare «gli ultimatum del bullo» (cioè il leader di Azione).  Sinistra Italiana discute un’intera giornata una mozione della sua minoranza che vuole far saltare l’accordo. È il sogno di Calenda: restare con il Pd, prendendosi, a quel punto, il 30 per cento di tutti i collegi, senza dover dividere la torta con nessun altro. Ma la grande domanda è: cosa ci guadagna Enrico Letta? Che strategia ha il leader del Pd? Lo incontro a La7. Gli dico che l’alleanza a due velocità sembra una riunione di famiglia con i parenti poveri che mangiano in cucina. Mi guarda stupìto: «Non era questo che volevo!».

Nella direzione del Pd Goffredo Bettini, Peppe Provenzano e Andrea Orlando criticano direttamente la scelta di rompere l’alleanza con Conte. Ma per tanti altri la paura di non essere ricandidati prevale. Meglio non esporsi. Poi arriva il colpo di scena: Fratoianni vince il braccio di ferro interno e strappa il sì all’alleanza con il Pd. E così, a sorpresa, è Calenda che – saltato il bluff – strappa e se ne va. La Bonino furibonda abbandona Calenda e rivela: «Non ci ha risposto al telefono per quattro giorni!». Così i poli diventano quattro: da un lato il centrodestra (unito), dall’altro Pd (e alleati), Conte, Calenda-Renzi (e le due liste no vax, Paragone e Alleanza per l’Italia).

Mai nella storia si era arrivati in un clima di tale improvvisazione alla sfida: nel 1994 la “Gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto univa nei “Progressisti” ben sei alleati (ma il Ppi era fuori). Nel 1996 l’Ulivo teneva insieme sia il centro che la sinistra (accordo di desistenza con Rifondazione). Nel 2001, con la candidatura di Francesco Rutelli, Rifondazione era fuori dall’alleanza, e il centrosinistra perse male. Nel 2006 con l’Unione, che comprendeva anche Rifondazione e Mastella, invece vinse. Nel 2008 con la cosiddetta “vocazione maggioritaria” teorizzata da Walter Veltroni (e una mini-alleanza con l’Italia dei Valori), la sinistra perse – malissimo – contro il centrodestra di nuovo unito. Nel 2013 il boom di Grillo determinò la cosiddetta “non vittoria” dell’alleanza “bene comune” tra Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola.

Nel 2018 il trionfo del M5S portò il Pd a trazione renziana alla più grave sconfitta elettorale nella storia della sinistra nella Repubblica (il 18 per cento). Oggi dalla demolizione del “campo largo” nascono un “campo ristretto” e una lista solitaria del M5S (voluta da Letta in nome di Draghi). Il rischio è un “cappotto” del centrodestra in tutti i collegi. Perché Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini sono divisi su mille cose. Ma hanno imparato la lezione imposta dalla peggiore legge elettorale del mondo, di cui non a caso spieghiamo i tanti difetti: il centrodestra marcia diviso, ma colpisce sempre unito. La sinistra ha impiegato due anni per unirsi. E poi è esplosa in un giorno.

Questo giornale – nel suo piccolo – ha fatto di tutto per suggerire un fronte comune quando era ancora possibile. Ma, dopo la scelta di Letta, a tutti è convenuto cercare l’utilità marginale. Al M5S (che ora insegue il ritorno alla “purezza” delle origini). Agli ultimi a rompere, i sognatori del terzo polo (che in realtà è il quarto e mezzo) che sperano di raggiungere il 10 per cento. Divisi, nudi e disarmati davanti ai carri armati della destra. Auguri.

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