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La guerra dimenticata in Afghanistan: un fallimento militare, politico ed economico (di Alessandro Di Battista)

Immagine di copertina
Illustrazione: Emanuele Fucecchi

"È ora di ritirare le truppe italiane da quel conflitto che ci è costato 7 miliardi di euro": il commento di Alessandro Di Battista per TPI

Insabbiare le proprie indecenze è da sempre un esercizio al quale la classe politica italiana ci ha abituato e fa parte di quella strategia della sopravvivenza che ha permesso a uomini di potere di perpetrare nefandezze per decenni nel colpevole disinteresse delle pubbliche opinioni.

Per quanto riguarda la guerra in Afghanistan, l’opera di occultamento di errori e responsabilità politiche è stata coadiuvata da uno dei peggiori sistemi mediatici del pianeta – quello italiano – che, salvo illustri eccezioni, ha lavorato incessantemente affinché uno degli interventi militari più meschini, inutili e controproducenti degli ultimi 50 anni, venisse trasformato in una guerra dimenticata.

Viviamo in tempi oscuri. Le informazioni circolano a velocità supersonica, l’infodemia – ovvero il traffico quasi ossessivo di notizie – ci fa credere di essere informati. Ma è un’illusione.

Conosciamo il superfluo e ignoriamo l’essenziale. Sono convinto che la maggior parte degli italiani non sappia che in Afghanistan i nostri soldati sono tutt’ora presenti. In questo momento sono 800 e partecipano ad una missione militare che, nel 2020, costerà al contribuente, quasi 160 milioni di euro.

Sono passati 16 anni da quando i primi soldati italiani misero piede in Afghanistan. Era il 2004, un’altra era. Facebook circolava solo in un paio di università californiane, Messi non aveva ancora esordito nella Liga, Giovanni Paolo II era il Vescovo di Roma e gran parte della stampa mondiale giustificava bombardamenti a tappeto, migliaia di morti e feriti rilanciando le menzogne dell’impero.

Nei TG nostrani controllati all’epoca da Berlusconi, desideroso di accreditarsi nelle stanze dei bottoni internazionali, si parlava di guerra giusta con obiettivi chiari e condivisibili. Fu allora che venne teorizzato il concetto di “esportazione della democrazia”.

Ma l’Afghanistan di oggi è un Paese divorato dalla fame, dilaniato dalla povertà, sotto i colpi di nuovi e violenti conflitti religiosi, dove l’Isis è riuscito ad entrare e da dove milioni di afghani sono fuggiti. L’Iran ha accolto 3 milioni di profughi afghani, ma nessuno lo scrive. E’ una verità scomoda che in un colpo solo frantumerebbe la narrazione diffamatoria della Persia e mostrerebbe uno dei tanti effetti dell’invasione occidentale dell’Afghanistan.

Dissero che i talebani erano coinvolti nell’attentato alle Torri Gemelle, che le donne sarebbero state, finalmente, liberate dal giogo oscurantista maschile o che sarebbero stati rasi al suolo i campi di papavero. Balle.

I talebani – verso i quali non nutro alcuna simpatia – non avevano nulla a che vedere con l’11 settembre. Le donne che ancora oggi indossano il burqa, hanno problemi più impellenti, come mettere su un pasto caldo per i loro figli. La produzione di oppio negli anni del conflitto ha frantumato record su record, tanto da far credere che siano stati i trafficanti di eroina i vincitori della guerra.

Nel 2017 la produzione di oppio ha raggiunto le 9.000 tonnellate.

La guerra in Afghanistan iniziò il 7 ottobre del 2001 quando, a meno di un mese dall’attentato al World Trade Center, gli Stati Uniti, anche con il supporto italiano, lanciarono l’operazione Enduring Freedom, Libertà Duratura. Si intendeva liberare il Paese dai talebani. In tanti ci hanno creduto. Oggi quegli stessi talebani si siedono al tavolo con i funzionari USA per limare i dettagli dell’accordo di pace di una guerra persa e proprio per questo dimenticata.

Ricordare le menzogne alla base del conflitto, i morti, i denari spesi – oltre 900 miliardi di dollari – è di vitale importanza. C’è già chi pensa di affrontare una crisi economica provocata da 30 anni di liberismo e oggi incrementata dal Covid-19, alimentando conflitti o individuando nuovi territori da saccheggiare.

Non si possono dimenticare le responsabilità di Berlusconi in un momento in cui c’è chi lavora per riabilitarlo sostenendo che ottenne grandi risultati in politica estera. Occorre ricordare la connivenza di Frattini, uno dei tanti vassalli di Washington che hanno guidato la Farnesina. Frattini fu uno dei principali sponsor della sciagurata guerra in Libia del 2011 per la quale stiamo ancora pagando tremende conseguenze. Frattini barattò il nostro sostegno alla coalizione anti-Gheddafi, ovvero la più cocente sconfitta italiana dalla seconda guerra mondiale in poi, in cambio della promessa, tra l’altro mai mantenuta, di diventare Segretario generale della Nato. Non si possono poi dimenticare i nostri morti ed i miliardi di euro che abbiamo gettato al vento. Diciannove anni di conflitto ci sono costati quasi 7 miliardi di euro, più del reddito di cittadinanza, una misura di dignità giudicata un grande spreco proprio da coloro che ci hanno portato in guerra in Afghanistan.

Tra il 2010 ed il 2012, gli anni della crisi economica, del record di suicidi dei piccoli imprenditori, della legge Fornero e di altre misure da macelleria sociale, il Governo italiano spese 2,4 miliardi per mantenere una media di 4100 militari all’anno in Afghanistan.

Sono numeri impressionanti ancor più se messi a confronto con i numeri impietosi della sanità pubblica di quegli anni. Cresceva il contingente italiano in Afganistan e diminuivano i posti letto nei nostri ospedali.

In un Paese normale tutto ciò sarebbe di dominio pubblico. In Italia no. Al contrario la retorica bellica riguarda tutto fuorché le guerre reali. “Siamo in guerra, siamo in guerra”, si sente ogni giorno in TV. Siamo in guerra contro il virus, siamo in guerra contro la disoccupazione, siamo in guerra contro i cambi climatici. Sembra che siamo in guerra dovunque tranne che in Afghanistan. Delle bombe piovute negli ultimi 19 anni su Kabul, Kandahar, Jalalabad o su migliaia di piccoli villaggi afghani non sappiamo nulla, così come delle vittime che hanno provocato. In compenso chiamiamo “bombe d’acqua” le piogge torrenziali. Ignoriamo i danni delle bombe vere ma in cambio attribuiamo i morti per pioggia non all’incuria, alle mancate manutenzioni o alla cementificazione, ma a qualcosa di imprevedibile, come un bombardamento dall’alto.

Se le guerre vengono occultate, la parola Pace perde di significato. Eppure il pacifismo, oggi più che mai, dovrebbe tornare di moda dato che stiamo andando incontro ad una nuova guerra fredda più pericolosa essendo contrapposti due sistemi politico-economici (USA e Cina) molti più simili di quanto non lo fossero quelli sovietici e statunitensi durante la prima Cold War.

Ho sempre sostenuto necessario il ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan. Oggi l’Italia sta via via smobilitando il proprio contingente ma questo non cancella il fallimento. Un fallimento politico: non si esporta la democrazia con le bombe; un fallimento militare: gli afghani dopo aver respinto gli inglesi ed i russi stanno respingendo anche l’esercito più potente al mondo ed i suoi alleati; un fallimento economico: nessuno ci ridarà 7 miliardi di euro che abbiamo buttato via.

L’Italia, probabilmente, lascerà l’Afghanistan solo dopo aver ottenuto il permesso di Washington. Nonostante i disastri conseguiti negli ultimi 30 anni dagli Stati Uniti in Medio Oriente, continuiamo ad essere più realisti del re; un re ormai nudo e circondato da cortigiani – molti dei quali, tra l’altro, sono politici italiani – che indosserebbero abiti di vergogna se solo i cittadini aprissero gli occhi.

Leggi anche: In Afghanistan si continua a morire, oltre 20 morti in un attacco contro gli sciiti

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