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Addio al re d’Israele

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Ariel Sharon è morto dopo otto anni di coma. Falco per una vita, prima della malattia aveva aperto al dialogo con la Palestina

Di lui dicevano che conoscesse soltanto due stati d’animo: combattere e prepararsi a combattere. Il guerriero Ariel Sharon è morto all’età di 85 anni, dopo che dal dicembre 2005 si trovava in uno stato di coma vegetativo.

Miscela micidiale di genio e indisciplina, con le sue imprese militari il generale Sharon si era guadagnato l’epiteto di “Re d’Israele” prima ancora di entrare in politica contribuendo alla storica vittoria del Likud nel 1977, dopo quasi trent’anni di dominio Laburista.

In prima linea nella guerra d’indipendenza del 1948, Ariel Sharon fu ferito nella disfatta sionista di Latrun, nella quale morirono centinaia di superstiti della Shoah che erano stati catapultati direttamente dal porto di Jaffa al fronte. Sharon racconterà poi di non essersi mai dimenticato le grida dei feriti con i numeri dei campi ancora freschi sulle braccia, e per questo motivo farà del recupero dei commilitoni colpiti sul campo una priorità assoluta per tutta la sua carriera.

Spregiudicato e spietato, nel 1953 Sharon portò a termine una sanguinosissima rappresaglia con la sua unità 101, uccidendo 69 civili palestinesi nel villaggio di Kibya e mettendo in forte imbarazzo il premier Ben Gurion. Tre anni più tardi disobbedì a ordini superiori durante la guerra di Suez, lanciandosi in un attacco incosciente per essere il primo ad arrivare al canale: l’operazione fallì e la sua hybris costò la vita a 40 dei suoi soldati. Ferocia e indisciplina sono caratteristiche che si porterà dietro per il resto della sua carriera.

La guerra dei sei giorni nel 1967 e quella dello Yom Kippur nel 1973 fecero emergere il genio militare del “Re d’Israele”: la strategia impiegata sul fronte Egiziano nel giugno 1967, che il generale riuscì a trasferire con inusitata perfezione dalle carte al campo di battaglia, è ad oggi insegnata nelle accademie militari di tutto il mondo. Forte del successo militare, dopo il 1973 Sharon si diede da fare per mettere in piedi il Likud, partito della destra sionista che quattro anni più tardi mise fine al dominio socialista che durava dall’Indipendenza del 1948.

Dopo la svolta del 1977, il primo ministro Menachem Begin assegnò a Sharon il Ministero dell’Agricoltura con responsabilità sugli insediamenti nei territori. Negli anni che seguirono Sharon si dedicò con costanza ed efficacia alla colonizzazione dei territori Palestinesi occupati nel 1967: se è vero che la costruzione degli insediamenti era già stata iniziata dai precedenti governi di sinistra, rimane il fatto che Sharon raddoppiò il numero di coloni in Cisgiordania e a Gaza nel corso del suo mandato. Allo stesso tempo, però, Sharon si trovò a gestire le operazioni di sgombero dal Sinai dopo che nel 1978 Sadat e Begin avevano firmato la pace fra Israele ed Egitto a Camp David. Nonostante la sua ideologia conservatrice intrisa del mito della “Grande Israele”, Sharon dimostrò pragmatismo e non si oppose al ritiro. Non apprezzarono in particolare i coloni di Yamit, che lo tacciarono di opportunismo e carrierismo.

Dopo il secondo trionfo del 1981, Begin decise suo malgrado di affidare a Sharon la poltrona della difesa. Le intemperanze del “Re d’Israele” durante l’invasione del Libano di un anno più tardi manderanno il Primo Ministro in una stato di depressione cronica che lo accompagnerà fino alla morte nel 1992. Durante l’operazione “Pace in Galilea”, con cui Israele voleva annientare l’OLP inserendosi nel pantano della sanguinosissima guerra civile libanese che durava dal 1975, Sharon disobbedì regolarmente agli ordini di Begin spingendosi fino ad assediare Beirut invece di limitarsi al cuscinetto di 40 chilometri concordato a Gerusalemme. E’ proprio durante l’assedio di Beirut che Sharon si macchiò della colpa più grave della sua vita, permettendo ai falangisti cristiani alleati di Israele di massacrare civili inermi nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Siamo nel 1982: un anno più tardi la commissione d’inchiesta “Kahan” appurò le sue responsabilità indirette costringendolo a dimettersi da ministro della difesa.

“Se non ti va bene averlo come ministro della difesa, te lo ritroverai a capo dello stato”, commentò un profetico Uri Dan il giorno dell’allontanamento dal ministero. Nel 2001 Ariel Sharon diventò Primo Ministro, dopo aver portato via la leadership del Likud all’eterno avversario Bibi Netanyahu e aver contribuito a scatenare, con la sua passeggiata sul “Monte del Tempio” nel Settembre 2000, la violentissima Intifada al-Aqṣā.

“L’uomo che non si ferma col rosso”, come lo definisce Uzi Benziman nella sua biografia, tornò a dimostrare il suo coraggio da leone nel 2005, questa volta parlando il linguaggio della pace e non quello della guerra. Il 20 febbraio 2005 Sharon firmò il decreto che stabiliva l’evacuazione di tutte le colonie israeliane della striscia di Gaza (21 in tutto) più quattro colonie della Cisgiordania. I coloni costretti a lasciare le proprie case furono in totale quasi 9mila, e fra questi c’erano molti di quelli che erano già stati cacciati dal Sinai in seguito all’accordo di pace con l’Egitto.

Queste le parole con cui volle preparare il paese al ritiro:“Il giorno è giunto. Ci avviamo al passo più difficile e doloroso di tutti, evacuare le nostre comunità della Striscia di Gaza e del nord della Samaria. Per me è un passo molto difficile, non è a cuor leggero che il governo d’Israele ha deciso il disimpegno, né con leggerezza il parlamento lo ha approvato. Non possiamo tenere la Striscia di Gaza per sempre. Vi abitano oltre un milione di Palestinesi e il loro numero raddoppia a ogni generazione. E’, il nostro, un passo che esprime forza, non debolezza. I palestinesi portano ora il peso della prova. Devono combattere le Organizzazioni terroristiche, smantellare le infrastrutture e dimostrare la sincera intenzione di realizzare la pace così da poter sedere insieme a noi al tavolo dei negoziati. Il mondo è in attesa di una loro risposta, una mano tesa alla pace o il fuoco del terrore. A una mano tesa risponderemo con un ramoscello d’ulivo ma al fuoco risponderemo col fuoco più spietato. La disputa sul piano di ritiro ha aperto ferite profonde, generato acre odio tra fratelli, dure parole e dure reazioni. Comprendo il dolore e il tormento di chi si oppone ma noi restiamo un unico popolo, anche quando combattiamo e ci scontriamo. Desidero dire ai soldati e polizia: avete da compiere una difficile missione. Non siete di fronte a un nemico ma a fratelli e sorelle. Comprensione e pazienza, questo il vostro mandato”.

L’operazione, costata 1,2 miliardi di euro fra esigenze militari e indennizzi, scatenò l’ira della destra israeliana contro il “traditore” Sharon. Il paese fu invaso dai nastrini arancioni della campagna del no al ritiro e l’arsenale retorico dei paragoni col nazismo già utilizzato contro Rabin ai tempi di Oslo venne rispolverato dai più oltranzisti. “Arik ci infligge una nuova Shoà ma noi abbiamo più armi dei combattenti del ghetto di Varsavia”, “il governo ha dichiarato guerra alla Torah”, “preghiamo per la morte di Sharon”. I coloni con le stelle gialle cucite sul petto, blasfemo richiamo agli internati dei campi, fecero rimbalzare lo spettro della guerra civile sulle prime pagine dei giornali nei mesi precedenti il ritiro. Verso la metà di Agosto, tuttavia, un irremovibile Arik Sharon portò a termine le operazioni in sei giorni, gli stessi che gli servirono a vincere la guerra nel 1967.

Il falco Sharon, dopo una vita da combattente e da leader della destra più dura, aveva capito i limiti della forza delle armi. Chissà cosa sarebbe stato del conflitto in Medio Oriente, se il coma farmacologico non se lo fosse portato via pochi mesi più tardi, esaudendo le preghiere di chi lo malediceva per la sua coraggiosa iniziativa di pace.

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