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Volti sfigurati, vite dimenticate: le foto di uno degli ultimi lebbrosari al mondo in Vietnam

Immagine di copertina
Credit: Roberto Pacilio e Andrea Cova

Anticamente ritenuti esseri impuri, i malati di lebbra venivano rinchiusi in strutture chiamate "lebbrosari" per non diffondere il batterio

La lebbra è una delle malattie più antiche dell’umanità: una delle sue prime attestazioni risale al XV secolo a.C., in India, dove viene definita con il termine “Kushta” nelle leggi di Manu, scritte nei Veda, nel 1400 a.C., che includevano anche le istruzioni per la sua prevenzione.

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Si pensa che il trasferimento della malattia dall’Oriente all’Occidente sia avvenuto tramite l’Egitto, oppure a causa dei soldati di Alessandro, di ritorno da una campagna in India (327-326 a.C.).

Per migliaia di anni la lebbra è stata considerata una malattia molto grave e pericolosa, tanto da essere associata a una punizione divina che divora la persona nel fisico e nell’anima, per la quale il malato viene emarginato dalla società.

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Per questo motivo, e per l’accezione molto negativa del termine, i lebbrosi erano sottoposti a regole molto rigide, dal momento che venivano considerati esseri impuri anche dalla Chiesa.

Non potevano entrare in locande, chiese, mulini, panifici, né potevano toccare le persone o mangiare con loro, lavarsi nei fiumi o camminare in strade strette; anzi, venivano rinchiusi in apposite strutture, erette per arginare e marginalizzare i malati al di fuori della società: i lebbrosari.

Matthew Paris stimò un numero pari a 19mila lebbrosari in Europa: solo in Francia ne esistevano circa 2000, mentre in Inghilterra più di 100. E i “fortunati” lebbrosi non confinati in tali luoghi dovevano avere uno speciale abbigliamento e portare un sonaglio di legno per avvertire del proprio arrivo.

Forse anche grazie a tali regole la lebbra sparì gradualmente, fino a divenire una malattia rara tranne che in poche località.

Infatti, secondo l’OMS negli anni ’80 del Novecento erano circa 12 milioni e negli anni ’90 e sarebbero scesi drasticamente a 2,5 milioni circa, fino a raggiungere i 249.000 nuovi casi accertati annui nel 2008.  Nel 2000, l’OMS ha definito come aree di endemia per la lebbra 91 nazioni. Le maggiori prevalenze si hanno in India, Africa sub-Sahariana e Sud America.

Oggi, leggende religiose a parte, si sa che la lebbra, conosciuta anche come malattia di Hansen, è una malattia infettiva e cronica causata dal batterio Mycobacterium leprae, per la quale sono state scoperte delle valide cure.

Ma i lebbrosari, costruiti in epoche molto antiche, sono resistiti fino in età moderna, e la loro eredità è a dir poco inquietante e decadente, come ad esempio quella del lebbrosario di Van Mon, poco distante da Thai Binh, nel nord del Vietnam, che è uno degli ultimi esistenti.

In esso vivono più di 200 pazienti, che vengono quotidianamente seguiti dal personale medico e da alcuni frati francescani, e per non lasciare nell’oblio più totale queste persone, Roberto Pacilio e Andrea Cova hanno deciso di realizzare un reportage fotografico di questo luogo dimenticato.

Gli ideatori del progetto sono entrambi affermati giornalisti, reporter e fotografi, che hanno collaborato con importanti testate giornalistiche italiane.

Hanno intitolato il loro reportage “Il figlio primogenito della morte”, facendo riferimento al passo della Bibbia nel Libro di Giobbe che recita: “Un malanno divorerà la sua pelle, il primogenito della morte roderà le sue membra” (Gb 18,13), per descrivere gli effetti della lebbra.

E, in effetti, le crude immagini del servizio fotografico mostrano visi, arti, pelli completamente sfigurati; mani e braccia mancanti e sostituite da rudimentali protesi.

L’esperienza dei due reporter è  stata forte e suggestiva, come raccontano loro stessi: “Arriva dritto e forte come un colpo alla bocca dello stomaco l’odore acre e pungente che si diffonde dalle stanzette del ricovero”.

“È difficile avvicinarsi. Cattivo odore? Paura generata da una certa mitologia sulla lebbra? Sicuramente entrambe le cose”.

E l’afa di un’aria che non migliora la situazione dell’odore, ma anzi lo rende più denso, pesa sulle coscienze dimenticate di queste persone che aspettano lentamente la fine della loro vita, se così si può chiamare.

Le giornate sono lente e sempre uguali, soprattutto chi ha perso gli occhi, le dita, le mani e non è più indipendente neanche nei piccoli gesti quotidiani. Questi hanno dunque bisogno dell’assistenza degli infermieri o dei vicini di stanza, in caso essi fossero ancora dotati degli arti in questione.

Per i pazienti più indipendenti, invece, le ore del giorno sono scandite dalla coltivazione di piccoli orti posizionati all’esterno, brevi passeggiate nel piazzale che si trova di fronte al lebbrosario, o chiacchierate all’ombra tra i malati e i frati.

“Ognuno nel lebbrosario ha la propria storia alle spalle: qualcuno se l’è portata in camera, qualcuno l’ha lasciata prima di entrare, altri l’hanno persa nei giorni (o mesi) dopo il ricovero”, raccontano gli ideatori del progetto.

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