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I rifugiati siriani che coltivano cannabis in Libano

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Dall'inizio della guerra civile, sono molti i siriani che lavorano nella valle libanese di Bekaa. Se tornassero indietro rischierebbero di essere uccisi dall'Isis

Dall’inizio della guerra civile, sono molti i rifugiati siriani che sono arrivati nella valle di Bekaa, un’area fertile nel nordest del Libano, per lavorare nei campi di cannabis.

Gli scatti della fotografa libanese Alia Haju raccontano la vita quotidiana dei rifugiati siriani che per guadagnare un po’ di soldi e fuggire all’Isis lavorano nella produzione illegale di marijuana. 

Prima dell’espansione del sedicente Stato islamico i siriani erano migranti stagionali, lavoravano i campi e poi tornavano a casa in Siria. Ora che l’Isis controlla le città da cui provengono, i rifugiati hanno paura di tornare indietro perché consumare o lavorare a contatto con la marijuana è considerato un peccato dagli estremisti islamici.

Se tornassero indietro rischierebbero anche di essere uccisi, racconta Aisha, una siriana di 15 anni. 

La coltivazione di cannabis è vietata in Libano, ma è estremamente redditizia. “Con un lavoro qualunque in Libano guadagni poco più di 600 euro l’anno, mentre con le droghe si guadagna oltre nove mila euro l’anno”, racconta Sharif, un coltivatore di cannabis. 

Grazie alla lavorazione della marijuana le donne guadagno circa 14 euro al giorno, soldi che poi mandano alle loro famiglie rimaste in Siria.  

Hind, un contadino libanese, racconta come dalla nascita dello Stato islamico ci sia stato un cambiamento di atteggiamento dei libanesi nei confronti dei rifugiati siriani perché anche i libanesi hanno paura che i rifugiati possano avere a che fare con l’Isis. “I siriani vendono guardati con sospetto”, dice Hind.

Una donna siriana, che coltivava cotone a Raqqa, sostiene che gli abitanti di Bekaa hanno spesso un comportamento razzista verso di lei, e avvolte li chiamano Daesh, l’acronimo arabo del sedicente Stato islamico. 

Vivere in Libano però le ha permesso di sentirsi più libera. “A Raqqa dovevo essere coperta da capo a piedi, nemmeno gli occhi mi si dovevano vedere”, racconta la donna. “Fuggire da quella città non è stato facile”, dice, “il viaggio fino il Libano è durato cinque giorni di cui la maggior parte a piedi”. Ma soprattutto spera di riuscir a far venire in Libano suo marito e il suo altro figlio che si trovano ancora nella città occupata dai militanti dell’Isis. 

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