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Home » Esteri

La fragile tregua tra India e Pakistan: ecco perché l’escalation nucleare non è scongiurata

Immagine di copertina
Credit: AGF

Quattro giorni di conflitto, con lo spettro di uno scontro atomico tra due Stati dotati di oltre 300 testate, hanno prodotto un precario cessate il fuoco. Ma le prospettive di pace duratura si allontanano. Ecco perché e quali possono essere gli effetti globali

Quattro giorni che hanno avvicinato due potenze atomiche all’orlo del precipizio. Durante l’ultimo conflitto tra India e Pakistan si è riaffacciata, ancora una volta, la paura di un’escalation nucleare. Poche ore prima del cessate il fuoco raggiunto il 10 maggio il Pakistan sembrava aver minacciato l’uso di armi nucleari. O almeno così avevano pensato in molti.
L’avvertimento, come ricordato da Bloomberg, avrebbe preso la forma di un’indiscrezione, poi smentita, della convocazione urgente dell’organismo responsabile della gestione delle armi atomiche pakistane. Una minaccia velata, che potrebbe aver contribuito ad accelerare gli sforzi degli Stati Uniti e del resto della comunità internazionale per convincere i due Paesi ad accettare una tregua.
Ne sembra convinto Trump. «Abbiamo fermato il conflitto nucleare», ha infatti dichiarato il presidente statunitense, che si è detto «molto orgoglioso» dell’accordo.  Questo avrebbe scongiurato una «brutta guerra nucleare», in cui «milioni di persone sarebbero state uccise». Al di là dell’enfasi tipica di Trump il rischio di una vera e propria spirale nucleare, quel 10 maggio, era probabilmente basso. Ma, per il futuro, le prospettive di una pace duratura tra i due Paesi, che insieme possiedono circa 330 testate nucleari, sembrano sempre più fragili.

No ai colloqui
Nonostante la tregua, i toni hanno tardato ad abbassarsi. A due settimane dal cessate il fuoco, il primo ministro indiano Narendra Modi continuava a escludere qualsiasi ipotesi di colloqui con Islamabad. Oltre a promettere che non ci saranno «scambi commerciali o colloqui» con il Pakistan, il leader della destra indiana, a capo del governo dal 2014, ha affermato che Islamabad pagherà a caro prezzo «ogni attacco terroristico» e che questo costo «sarà pagato dallesercito del Paese e dalla sua economia».
Come in passato al centro del conflitto c’è il Kashmir, regione attraversata dall’Himalaya occidentale che entrambi i Paesi rivendicano come propria. I primi raid indiani sono stati lanciati in risposta all’uccisione di 26 persone nella parte controllata dall’India, attribuita a miliziani sostenuti dal Pakistan. Accusa respinte al mittente da Islamabad, che ha accusato a sua volta Nuova Delhi di sostenere i separatisti nella provincia sudoccidentale del Belucistan.
La strage è avvenuta a Pahalgam, popolare destinazione turistica nel Jammu e Kashmir. Un territorio che il governo di Modi garantiva di aver pacificato dopo anni di pugno duro. Nel 2019 era stato infatti declassato da stato federato, l’unico in India a maggioranza musulmana, a territorio sotto il controllo diretto del governo. Da quella decisione, seguita da una massiccia campagna di arresti, le violenze si erano ridotte a schermaglie tra separatisti e forze indiane. Il turismo aveva visto una forte ripresa ed erano stati riaperti i cinema, in precedenza colpiti dai separatisti. Una crescita interrotta bruscamente il 22 aprile, in cui tutte le vittime, a eccezione di una, erano turisti.

Secondo il governo indiano i tre attentatori sarebbero legati agli islamisti di Lashkar-e-Taiba (LeT), gruppo responsabile degli attacchi a Mumbai del 2008, costati la vita a 166 persone. La reazione nell’opinione pubblica è stata forte, e in alcuni casi violenta. Mentre sui media si diffondevano immagini di corpi dilaniati dai proiettili e di bambini che chiedevano aiuto, per le strade si sono registrati episodi di aggressione e minacce contro musulmani e giovani del Kashmir. In particolare i gruppi della destra religiosa Hindutva hanno inondato i social di contenuti nazionalisti, con canzoni che invocano l’espulsione della minoranza musulmana o il bombardamento del Pakistan con l’atomica.

Mai tanto sangue da decenni
La risposta del governo indiano non si è fatta attendere. Prima ancora di lanciare i raid aerei, l’India ha annunciato la chiusura del confine terrestre con il Pakistan, con l’espulsione di diplomatici pakistani. Ha inoltre decretato la sospensione di un importante trattato sull’utilizzo delle acque del fiume Indo, in vigore da 65 anni. Una decisione senza precedenti, definita un «atto di guerra» dal governo pakistano, il quale ha negato ogni responsabilità per l’attacco, chiedendo una «indagine neutrale». Richiesta che l’India ha rifiutato. Islamabad ha inoltre chiuso il suo spazio aereo alle compagnie indiane e ha sospeso un trattato di pace del 1972.

Quando poi il 7 maggio sono iniziati a piovere i missili, Nuova Delhi non si è limitata al Kashmir ma ha scelto obiettivi in profondità, colpendo basi aeree e “infrastrutture terroristiche” lontane dal confine. Per la prima volta dalla guerra del 1971 lIndia ha attaccato la provincia del Punjab, la più popolosa del Pakistan, come ricorda l’International Institute for Strategic Studies. Il Pakistan ha invece attaccato gli stati indiani del Punjab, del Rajasthan e del Gujarat. Entrambi hanno usato sia droni che missili. Tra gli obiettivi colpiti alle prime ore del 10 maggio, ultimo giorno del conflitto, c’è stata anche la base di Nur Khan, a poca distanza da una sede del comando nucleare pakistano e a 10 chilometri da Islamabad. Il bilancio finale è stato, secondo l’esercito pakistano, di 11 vittime tra i soldati e 40 tra i civili, tra cui 15 bambini, mentre secondo l’India sono stati uccisi almeno 16 civili e 5 soldati indiani. Si tratta, per i due Paesi, del conflitto più sanguinoso degli ultimi decenni. Ma la sua portata va al di là del subcontinente indiano. Si è trattato infatti del più intenso scontro aereo tra due Paesi dotati di armi atomiche, come dichiarato a Cnn da Salman Ali Bettani, docente di relazioni internazionali all’Università Quaid-i-Azam di Islamabad.

Banco di prova
È stata anche la prima volta che aerei cinesi J10-C e missili PL-15 sono stati impiegati in battaglia e, più in generale, la prima volta che armi avanzate cinesi hanno affrontato sistemi occidentali. A usarli sono stati le forze pakistane, che acquistano quasi due terzi di tutte le esportazioni di armi della Cina (il 63 per cento secondo lo Stockholm Peace Research Institute) mentre l’India negli ultimi anni ha ridotto la sua dipendenza storica dalle forniture russe a favore di quelle occidentali, in particolare da Francia, Israele e Stati Uniti.

È stata quindi l’occasione, per analisti e ufficiali, di saggiare le capacità militari cinesi. Ma anche, per le aziende cinesi, di mettere in mostra i propri prodotti in un contesto di conflitto reale. In particolare Islamabad ha rivendicato l’abbattimento di ben cinque caccia indiani, tra cui tre Rafale di fabbricazione francese, utilizzando gli aerei cinesi J10-C. Anche se la notizia, rilanciata dal ministro degli Esteri pakistano Ishaq Daq, non è stata confermata, molti esperti hanno descritto il momento come un possibile spartiacque nella corsa globale alle armi. I mercati non hanno esitato a premiare il titolo di Avic Chengdu Aircraft Company, produttore dei J-10, che in pochi giorni ha visto un balzo del 65 per cento, prima di perdere parte dei guadagni. A Taiwan l’annuncio ha fatto scattare qualche campanello d’allarme. A Bloomberg Shu Hsiao-Huang, ricercatore presso l’Istituto per la ricerca sulla difesa e la sicurezza nazionale, collegato al ministero della Difesa di Taiwan, ha detto potrebbe essere necessario «rivalutare» le capacità aeree dell’esercito cinese che «potrebbero avvicinare o addirittura superare» quelle schierate dagli Stati Uniti in Asia orientale. Per questo ha invitato Washington a prendere in considerazione la vendita di sistemi più avanzati a Taiwan. Hu Xijin, ex direttore del Global Times, testata legata al Partito comunista cinese, ha affermato che, se gli abbattimenti fossero confermati, l’esercito di Taiwan dovrebbe avere «ancora più paura».

Un nuovo modello?
Per quanto riguarda i rapporti tra India e Pakistan il timore è che il conflitto possa rappresentare un nuovo modello, più aggressivo, per future escalation tra i due vicini. Lo stesso Modi è stato tutt’altro che rassicurante, parlando di una «nuova normalità» nei rapporti con il vicino a maggioranza musulmana. Dopo il cessate il fuoco, il primo ministro indiano ha anche affermato che l’India ha «solo sospeso» le operazioni e che «colpirà con precisione e determinazione i covi che i terroristi si stanno creando sotto la copertura del ricatto nucleare». Allo stesso tempo ha rinnovato le accuse di sostegno al terrorismo, sostenendo che i più gravi attentati a livello internazionale hanno avuto origine dalle «università del terrorismo globale» situate in Pakistan.
Lo stesso messaggio è al centro di un’offensiva diplomatica lanciata da Nuova Delhi per convincere il mondo delle sue ragioni e cercare sostegno nella sua campagna contro il terrorismo.  Infatti, nonostante la narrazione trionfalistica (secondo Modi «l’India ha dimostrato la sua superiorità nella nuova era della guerra»), il conflitto ha creato a Nuova Delhi più di qualche difficoltà, almeno dal punto di vista diplomatico. Da qui la decisione di inviare sette delegazioni nelle capitali di più di 30 Paesi, in Europa, Asia, Medio Oriente, Africa e Sud America, con l’obiettivo di contrastare lidea di una sostanziale equivalenza delle ragioni di India e Pakistan nel Kashmir, ponendo l’accento sul sostegno di Islamabad al terrorismo e sul suo presunto coinvolgimento nella strage del 22 aprile.
Anche il Pakistan ha organizzato una propria iniziativa diplomatica, anche se su scala molto più ridotta. Islamabad ha inviato propri rappresentanti a Washington, Parigi, Bruxelles, Londra e Mosca per esporre il proprio punto di vista sul conflitto, in cui secondo il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif, ha riportato una «vittoria storica» nel rispondere alla «aggressione» indiana. Secondo Madiha Afzal, del Brookings Institution, l’attuale amministrazione statunitense potrebbe rappresentare per il Paese «una boccata d’aria fresca e un’opportunità per cercare di ristabilire le relazioni». «L’amministrazione Trump non sembra essere vincolata al solito atteggiamento aggressivo di Washington nei confronti del Pakistan», ha osservato Afzal al Financial Times.
Proprio le prese di posizione di Donald Trump rappresentano un problema per l’India. Il tycoon ha elogiato entrambe le parti per la loro «leadership incrollabile» nel porre fine ai combattimenti e ha dichiarato che «si può giungere a una soluzione per quanto riguarda il Kashmir» mentre Nuova Delhi si oppone a qualsiasi tentativo di mediazione internazionale. Lo stesso ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, ha tenuto a smentire Trump specificando che la tregua del 10 maggio è stata negoziata direttamente tra India e Pakistan e non raggiunta grazie alla mediazione dell’amministrazione statunitense, come invece emerso nelle ricostruzioni dei giorni successivi al cessate il fuoco.
Agli occhi di Nuova Delhi, Islamabad usa gruppi terroristici per attaccare l’India e poi fa affidamento sul suo deterrente nucleare per limitare ogni ritorsione. Per questo non essere riusciti a imporre la questione terroristica come prioritaria, mentre l’attenzione del mondo si è concentrata sulla minaccia nucleare, rappresenta più che un passo falso. Con il rischio che, in futuro, l’India possa non accettare una nuova mediazione per trovare una via d’uscita.

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