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Reportage TPI – Palestina, terra dannata: tra muri, violenze e repressione in Cisgiordania non cambia mai niente

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Divisi, sempre più poveri e costretti a vivere nella paura. In Israele si protesta ma in Cisgiordania la situazione è sempre la stessa. “Puoi fare festa a Tel Aviv. E non sapere nulla di cosa succede qui da noi. L’occupazione è una violenza quotidiana”. E da quando è tornato Netanyahu i morti sono triplicati. Il reportage dell'inviata di TPI a Ramallah e Betlemme

Betlemme. Turisti e pellegrini affollano le strade che portano alla Basilica della Natività. Tra i rumori del traffico e gli edifici addossati l’uno sull’altro, venditori ambulanti espongono dolci di frutta secca e simboli religiosi. Graffiti e disegni colorano il muro alto sei metri che circonda completamente la città: uno di questi è la scritta “A tale of two cities” (Racconto di due città), tra una bandiera israeliana e una palestinese.

Siamo a meno di 9 chilometri da Gerusalemme, ma le due località sembrano appartenere a mondi diversi: a Gerusalemme, edifici moderni e negozi occidentali, a Betlemme, strade affollate di bambini che chiedono l’elemosina. Tra le due città, un checkpoint militare controllato da soldati armati fino ai denti.

Separati dal mondo
Betlemme è una delle città cisgiordane sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, nella cosiddetta Area A. Composta da enclavi senza continuità territoriale tra di loro, in cui vivono affollate migliaia di persone, l’Area A corrisponde solo al 17% della Cisgiordania. Il 60% del territorio corrisponde all’Area C, sotto completo controllo militare israeliano. Sono circa 30mila i palestinesi che abitano a Betlemme, molti nei tre campi profughi sorti nella città dopo l’esodo palestinese del 1948 e la Guerra dei Sei giorni del 1967.

Camminando per le strade della città si vedono ovunque graffiti rappresentanti volti giovani, a volte quasi bambini. Sono ritratti dei cosiddetti “shaheed” (martiri), uccisi dall’esercito israeliano spesso per il semplice fatto di aver gettato una pietra contro un carro armato. Dall’inizio del 2023, l’esercito ha ucciso oltre 80 palestinesi, il triplo rispetto allo stesso periodo del 2022: un aumento della violenza che è coinciso con l’insediamento del governo più a destra nella storia di Israele. «Tutti i palestinesi conoscono qualcuno, un amico, un parente, che è stato ucciso: le storie di famiglia sono piene di martiri», dice a TPI Jawad Zawahra, attivista palestinese non-violento originario di Betlemme.

A sud, un altro checkpoint collega la città con i villaggi circostanti. Jawad racconta che i controlli dei militari israeliani possono creare attese lunghe ore o addirittura giorni. «Un paio di militari possono chiudere il checkpoint bloccando 30mila palestinesi nella città e separandoli dal resto del mondo», racconta. Rendendo Betlemme una prigione a cielo aperto. Inoltre, spesso i militari israeliani dispongono checkpoint temporanei tra una città e l’altra: per andare da casa sua a Ramallah, dove lavora, Jawad arriva a impiegare fino a tre ore per una strada che si potrebbe percorrere in un’ora. «Per noi Palestinesi non c’è libertà di movimento, ogni spostamento è un’impresa, ogni attività quotidiana è faticosa», ci spiega.

Sulle colline intorno a Betlemme si vedono moderne villette a schiera circondate da spazi verdi. Sono gli insediamenti israeliani, vere e proprie colonie in territorio palestinese, illegali secondo il diritto internazionale. Gli insediamenti, circondati da recinzioni e fili spinati, si susseguono quasi ininterrottamente alternandosi a villaggi più poveri e fatiscenti. «Per capire se è un insediamento israeliano o un villaggio palestinese basta guardare i tetti delle case», fa notare Jawad. «Ogni casa palestinese ha un serbatoio d’acqua sul tetto, mentre gli insediamenti sono collegati all’impianto idrico israeliano». Militari israeliani sorvegliano l’ingresso di ogni insediamento, tenendo i mitra perennemente puntati.

Davanti a un insediamento, due giovani coloni israeliani attraversano la strada, in pantaloncini corti e occhiali da sole. Entrambi portano in spalla un fucile automatico. È infatti legale per i cittadini israeliani possedere e portare con sé armi. «Se questi ragazzi dovessero uccidere un palestinese per strada, sarebbe facilmente descritta come legittima difesa», sostiene Jawad.

«Con l’accordo di Oslo, Israele ha accettato la “soluzione dei due Stati”, ma non si può parlare di due Stati con la situazione attuale», conclude Jawad. «Come fa a esistere uno Stato senza continuità territoriale, senza un unico governo, senza controllo sui confini, con un’occupazione militare, e con oltre 200 insediamenti israeliani in territorio palestinese?».

Un sistema crudele
Se Israele può essere considerato uno Stato a tutti gli effetti, non si può dire la stessa cosa per la Palestina. Il territorio palestinese è infatti diviso tra Cisgiordania e Striscia di Gaza, separate dal territorio israeliano. Dal 2007, le due zone sono sotto governi diversi, con due presidenti che di fatto coesistono: in Cisgiordania è al potere Fatah, mentre la Striscia di Gaza è controllata da Hamas, considerata un’organizzazione terroristica dall’Unione europea. Mentre la Striscia di Gaza viene spesso definita come un territorio sotto assedio, a causa del completo controllo israeliano sui suoi confini, in Cisgiordania gli insediamenti e l’occupazione militare limitano il controllo dell’Autorità Palestinese sul territorio.

Anche l’economia palestinese è sotto controllo israeliano: in Palestina si usa lo shekel come moneta, le importazioni ed esportazioni palestinesi vengono controllate dalla polizia di frontiera israeliana, e le tasse palestinesi vengono raccolte da Israele, il che causa non pochi problemi. Da qualche mese, infatti, Israele ha smesso di trasferire le tasse raccolte all’Autorità Palestinese: i salari dei dipendenti pubblici sono stati tagliati, gli insegnanti sono in sciopero e le scuole sono chiuse.

«I media occidentali raccontano di un “conflitto israeliano-palestinese” come se si trattasse di una lotta equa tra due Stati di pari forza militare», si sfoga la giovane palestinese Rita (nome di fantasia). «Ma è uno scontro asimmetrico quello tra uno Stato funzionale e un popolo occupato, tra un esercito con le armi più avanzate e alcuni giovani che tirano pietre per difendersi dai carri armati: non è un conflitto, è un’occupazione».

Il sistema di oppressione e dominazione imposto da Israele sui palestinesi è stato definito da Amnesty International come “apartheid”. L’organizzazione internazionale ha dichiarato che le leggi e le politiche intese a mantenere un sistema crudele di controllo sui palestinesi li hanno lasciati geograficamente e politicamente frammentati, spesso impoveriti, e in uno stato costante di paura e insicurezza.

«Quello che sta succedendo qui in Palestina è occupazione non meno di quanto l’Ucraina sia sotto occupazione militare russa: c’è una forza occupante e una occupata», continua Rita, aggiungendo che se l’Occidente fosse coerente si interesserebbe alle violazioni dei diritti umani e all’apartheid palestinese come si interessa dell’Ucraina, e imporrebbe sanzioni su Israele.

Lo squilibrio di potere tra Israele e Palestina è emerso ancora una volta nelle ultime settimane. Nella notte tra il 5 e il 6 Aprile la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme, e picchiato brutalmente i fedeli che pregavano durante il Ramadan: un’ennesima prova di forza di Israele, che ha mostrato al mondo la violenza sopportata quotidianamente dai palestinesi.

«Puoi vivere a Tel Aviv, fare festa nei locali, senza sapere nulla di quello che sta succedendo qui, ma in Palestina l’occupazione è una violenza quotidiana», conclude Rita. Parole che riempiono di significato la citazione dickensiana “A tale of two cities”.

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