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La vittoria di al-Sisi

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Il generale ha vinto le elezioni egiziane con il 95 per cento, ma suscita forti dubbi il pericolo di brogli elettorali

I risultati delle elezioni presidenziali in Egitto sono stati quelli che tutti si aspettavano. Il generale Abdel Fattah al-Sisi, attuale vice primo ministro ed ex capo delle forze armate, è stato eletto con il 95 per cento dei voti e sarà il prossimo presidente egiziano.

S&D

Le elezioni, che all’inizio si sarebbero dovute tenere il 26 e il 27 maggio, sono state prorogate di un giorno dalle autorità egiziane a causa della scarsa affluenza alle urne. Ciononostante meno della metà degli elettori – solo il 44,4 per cento – si è recata a votare, un numero ben inferiore al 52 per cento di affluenza che nel giugno 2012 ha portato all’elezione di Mohamed Morsi.

La speranza di al-Sisi di vedere una forte affluenza alle urne che legittimasse la sua salita al potere – avvenuta a seguito del colpo di stato dell’esercito nel luglio 2013 – è dunque venuta meno. Complice il fatto che i Fratelli musulmani – partito dell’ex presidente Morsi – hanno boicottato il voto, così come molti attivisti liberali e laici.

L’unico sfidante, Hamdeen Sabahi, ha guadagnato solo il 4 per cento dei voti, ma i suoi sostenitori hanno denunciato irregolarità nei seggi. Alcuni attivisti dell’opposizione sarebbero inoltre stati arrestati dopo presunte violazioni nei seggi elettorali in tutto il paese.

Gli egiziani sapevano già da tempo che al-Sisi sarebbe stato il loro nuovo presidente ma data la sua riservatezza e la campagna elettorale estremamente reticente sanno veramente poco di lui.

Tra i militari al-Sisi è stato a lungo conosciuto come un solitario, uno che preferiva la compagnia esclusiva di un piccolo gruppo di amici. Cosa che ha continuato a fare anche dopo essere diventato leader di fatto del paese circa un anno fa, circondandosi della cerchia di suoi alleati ora a capo dell’esercito e dell’intelligence.

Quanto alle sue opinioni politiche, al-Sisi ha lasciato intendere durante la campagna di non essere particolarmente religioso, prendendo le distanze dai partiti conservatori islamici che avevano approvato la sua candidatura e circondandosi invece di personalità musulmane moderate, tra cui lo studioso islamico e l’ex gran mufti Ali Gomaa, le cui interpretazioni dell’Islam sono favorevoli alla parità di genere, e contrarie all’odio tra islamisti.

Ma secondo un articolo pubblicato da Foreign Affairs, le convinzioni personali di al-Sisi contrastano fortemente con la sua immagine pubblica di religioso moderato. Le sue reali opinioni sarebbero emerse in qualche occasione pubblica: ad esempio quando la popolazione egiziana ha protestato contro la scelta dell’esercito di imporre test di verginità alle manifestanti femminili nel 2011 e al-Sisi ha dichiarato che fosse sua responsabilità – in quanto leader di un istituto nazionale onorevole – decidere se le manifestanti fossero onorevoli.

A sostegno di questa tesi è anche il fatto che nel 2006 il generale al-Sisi ha scritto un documento per l’US Army War College nel quale sosteneva che la democrazia in Medio Oriente potesse esistere solo se di natura islamica.

D’altra parte, se il generale non fosse stato un religioso non avrebbe ricevuto la fede pressoché illimitata che Morsi e i Fratelli Musulmani gli hanno inizialmente attribuito. Essi infatti, dopo aver promosso al-Sisi a ministro della difesa al posto di Mohammed Tantawi nel 2012, hanno continuato a credere che sarebbe rimasto fedele alla loro causa quasi fino al momento in cui il generale ha appoggiato il colpo di stato, il 3 luglio 2013.

Il plebiscito elettorale del generale è comprensibile solo se si considera la dura repressione che da mesi il governo porta avanti contro i Fratelli musulmani, dichiarati fuorilegge dal nuovo governo. Secondo un’analisi del Centro egiziano per i diritti sociali ed economici (Ecesr), dal colpo di stato del luglio 2013 oltre 41mila persone sono state incriminate o incarcerate. Per la maggior parte si tratta di sostenitori di Morsi. A marzo 2014, 529 di loro sono stati condannati a morte con un processo di massa che ha suscitato lo sdegno della comunità internazionale.

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