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La rivoluzione bolivariana dopo Chávez

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Il futuro del “chavismo” in tutta l’America Latina dopo la morte del padre della rivoluzione bolivariana moderna

Chávez no se va!”, gridava sconvolta la piazza Simòn Bolivar di Caracas, gremita di venezuelani riuniti a lutto per la scomparsa del loro leader, il 5 marzo scorso. Ma in Venezuela non c’è tempo per piangere: la Costituzione impone nuove elezioni entro trenta giorni dalla morte del presidente in carica. In meno di un mese si capirà se Hugo Chávez è andato via davvero o se, come si augurano i suoi sostenitori, lo spirito della rivoluzione bolivariana continuerà a orientare la vita politica della repubblica sudamericana.

È difficile ragionare su Chávez senza cadere negli eccessi ideologici: i detrattori lo considerano un terribile dittatore, gli estimatori un rivoluzionario pittoresco e di successo. Persino Noam Chomsky, linguista e politologo nordamericano, da sempre aperto sostenitore della rivoluzione chavista e della sua denuncia contro l’imperialismo statunitense, ha più volte denunciato le derive autoritarie di quello che alcuni hanno definito “l’ultimo caudillo sudamericano”. Tali critiche restano fondamentali rispetto alla salvaguardia della democrazia venezuelana. Tanto quanto il suo defunto leader, il Venezuela è una realtà estremamente controversa: il tasso d’inflazione ha raggiunto una media del 31,6 per cento nel 2012 e il livello di spesa pubblica è ai suoi massimi storici. Il tasso di criminalità è esploso e Caracas è diventata una delle capitali più pericolose al mondo. Nel 2012 si è registrato il picco record di 21,697 omicidi nel Paese. La corruzione nella pubblica amministrazione rimane un cancro dilagante. Gli espropri promossi dall’ideologia chavista hanno allontanato capitali e imprenditori che da anni avevano scelto il Venezuela come terra promessa per i propri investimenti.

Tuttavia, secondo i dati della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite, tra il 1999 e il 2009, il tasso di disoccupazione è più che dimezzato, passando dal 15 al 7,5 per cento. La povertà estrema ha raggiunto un tasso di circa l’8 per cento nel 2011, quasi tre volte inferiore rispetto alla situazione del 1999. Cosi come la mortalità infantile si è quasi dimezzata tra il 1999 e il 2011, passando dal 20 al 13 percento circa. Le entrate nette dovute alle esportazioni di petrolio hanno iniettato nelle casse dello stato più di 60 miliardi di dollari solo nel 2011, una cifra impensabile un decennio fa. Di pari passo, sempre secondo fonti dell’Onu, seguono l’aumento significativo del tasso di scolarizzazione e dell’accesso ai servizi sanitari pubblici di base.

Gran parte della stampa occidentale ha a lungo dipinto Chávez come un terribile dittatore, anche se sarebbe difficilmente accettabile in qualsiasi Paese occidentale definire tale un leader politico che ha largamente vinto quattro turni elettorali, l’ultimo con la benedizione dell’intera opposizione e degli osservatori internazionali. Ciò naturalmente non esclude la tendenza evidente ad atteggiamenti autoritari del caudillo. Tuttavia, tale attitudine della stampa occidentale ha spesso impedito una sana analisi delle luci e delle ombre presenti nelle politiche chaviste in Venezuela, nonché delle politiche filo-chaviste in altri Paesi latinoamericani.

Si può e si deve certamente discutere sui molti limiti della politica chavista, primo fra tutti la sostenibilità economica di un piano di spesa pubblica senza limiti, supportato quasi in maniera esclusiva dai proventi del petrolio, sull’elargizione spropositata di sussidi e sulla corruzione lancinante. Ma alla domanda se la rivoluzione avviata da Chávez nel 1998 sia ormai destinata a proseguire in tutto il continente, la risposta sembra essere piuttosto positiva. Dopo un decennio di politiche economiche neoliberali, troppo spesso imposte come terapia d’urto e largamente fallimentari, gran parte dell’America Latina sta tentando di rispondere, per la prima volta, con un modello economico e sociale alternativo, mentre i Paesi occidentali sono prigionieri di una crisi alla quale non si riesce a trovare rimedi.

Il presidente ecuadoriano Rafael Correa, recentemente rieletto con più del 57 percento dei voti, dipinge Chávez e il chavismo come ispiratori del processo che sta guidando l’Ecuador verso uno dei periodi più fiorenti della sua storia contemporanea. Certo, forse il suo giudizio è influenzato dagli ingenti aiuti economici che il governo di Quito ha ricevuto dal Venezuela chavista. E lo stesso potrebbe dirsi nel caso di Castro a Cuba, di Evo Morales in Bolivia o di Cristina Fernandez de Kirchner in Argentina, per citarne alcuni. Lo stesso ex-presidente brasiliano Lula, pur nelle differenze che contraddistinguono il suo Brasile dal Venezuela di Chávez, ha guardato a molti aspetti del chavismo come a un’opportunità piuttosto che una minaccia, in particolare rispetto al sogno comune di integrazione regionale.

Persino l’emergente e più filo-americana Colombia comincia a dare segnali di cambiamento di rotta sotto la guida del più pragmatico presidente Juan Manuel Santos. L’ampliamento del ruolo dello Stato, la rinegoziazione di contratti ormai obsoleti e svantaggiosi per il Paese – specialmente nell’industria energetica -, il ripensamento del sistema bancario classico, la priorità data alle politiche sociali e il progetto di un continente economicamente integrato e politicamente unito sembrano essere il collante della scommessa rivoluzionaria lanciata dal chavismo e oggi condivisa, discussa e rielaborata dall’intero continente.

La storia ci insegna che ad azzardare previsioni di lungo periodo sulle sorti dell’America Latina si rischia spesso di cadere in valutazioni totalmente erronee. Tuttavia, sembra che il moto lanciato da Chávez continui a espandersi lungo tutto il continente. La sfida è quella di liberare le idee più semplici alla base del chavismo dei suoi limiti di sostenibilità economica, dei suoi estremismi e delle sue derive autoritarie, creando basi solide per un futuro che fino a oggi non è arrivato per quello che molti definiscono ancora “il continente dimenticato”.

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