La rivolta della solitudine: com’è cambiata la protesta contro il regime degli ayatollah in Iran

Sahar e Layla insegnano all’università, Sattar fa parte del sindacato dei lavoratori del gas, Esan delle forze armate. Farzad e Sepideh invece organizzano la contestazione da uno scantinato. “La resistenza non si è mai organizzata”, spiegano a TPI. Ecco come è cambiata la protesta in Iran
«La disobbedienza civile e le proteste silenziose continuano: noi ne siamo la dimostrazione». Farzad parla dallo scantinato di una palazzina alla periferia di Teheran, in sottofondo ci sono solo i rumori della città che dorme sotto la pioggia: spezzoni di conversazioni di chi ha fatto le ore piccole, la sirena di un’ambulanza, le auto che si mettono in marcia. Quello scantinato è di sua nonna, ma da mesi è diventato il punto di ritrovo di un collettivo dell’Università di Teheran (una dozzina tra studenti e studentesse tra i 22 e i 25 anni), che si riunisce per programmare i post sui social e per diffondere informazioni sfruttando reti protette. Lo hanno fatto anche durante i venti giorni di detenzione di Cecilia Sala, la giornalista di Chora Media rimasta in isolamento nel carcere di Evin, a Teheran, dal 19 dicembre all’8 gennaio: «Sappiamo che tutti hanno collegato il suo rapimento al caso Abedini (l’ingegnere iraniano arrestato a Malpensa il 16 dicembre 2024 su richiesta degli Stati Uniti e poi liberato il 12 gennaio – ndr). Ma va ricordato che qui prendere le persone in ostaggio è una prassi, soprattutto se si tratta di stranieri occidentali, che per il regime rappresentano un valore enorme dal punto di vista economico: gli Stati occidentali, di fronte a un personaggio come Sala, pagano cifre altissime per una liberazione. E, per la sua storia e per il lavoro che svolge, era molto facile accusare Sala di spionaggio per potenze nemiche, collusione contro la sicurezza nazionale o violazioni delle leggi islamiche. Lei, come altri, sono sempre pedine di scambio per ottenere qualcosa. Basta un dato per capirlo: quando incarcerano noi iraniani, passano settimane o mesi interi prima che le famiglie e gli avvocati riescano a capire dove e in che condizioni siamo». Ecco perché, anche in piena notte, la guardia è alta e ogni suono viene analizzato: «Noi ne siamo sicuri: l’Iran non tornerà più com’era prima dell’uccisione di Mahsa Amini e della rivolta Donna, vita, libertà. Ma il regime è sempre lo stesso, le emergenze si moltiplicano. E la verità, per quanto spiacevole, è che ogni giorno che passa siamo sempre più soli. Siamo in generale in molti a voler combattere la battaglia contro il regime, ma la resistenza non si è mai organizzata, è ancora troppo pericoloso: ci sono gruppi sparsi o singole persone. Certo, molte donne nelle strade iraniane ancora oggi escono senza l’hijab nonostante sia obbligatorio e il regime non può fermarle tutte. Però…».
La voce di Farzad si spezza e fa trapelare uno sconforto che si legge anche nel silenzio. A proseguire la frase è Sepideh: «Però dobbiamo cavarcela in autonomia ed è frustrante: che alternativa abbiamo? Scappare e darla vinta a loro, ancora una volta. Oppure attirare l’attenzione, anche con gesti estremi». Anche perché, nel frattempo, «si fanno avanti nuove emergenze, come quella economica, che hanno a che fare con la sopravvivenza. E i motivi delle proteste prima si sommano, poi si confondono, infine cambiano fino ad annacquare tutto. Siamo diventati quasi invisibili ormai, anche per la comunità internazionale, ma per noi la libertà non si negozia». È così, prendendo atto di questa solitudine, che la rivolta ha subito la sua metamorfosi, trasformandosi da collettiva a individuale, ma «senza mai fermarsi».
La metamorfosi
Il simbolo dell’esasperazione delle giovani generazioni in questo momento storico dell’Iran è stato il suicidio dell’attivista e giornalista Kianoosh Sanjari, annunciato da lui stesso sul suo profilo social. «Nessuno dovrebbe essere incarcerato per aver espresso le proprie opinioni. La protesta è un diritto di ogni cittadino iraniano. La mia vita finirà dopo questo tweet ma non dimentichiamo che moriamo per amore della vita, non della morte. Mi auguro che un giorno gli iraniani si sveglieranno e sconfiggeranno la schiavitù», sono le ultime parole scritte dal 42enne prima di buttarsi dal ponte Hafez. Un gesto estremo, arrivato dopo una richiesta precisa: la liberazione di Fatemeh Sepehri, Nasrin Shakarami (la madre di Nika, la manifestante di sedici anni uccisa e divenuta un volto simbolo del movimento Donna, vita, libertà – ndr), Toomaj Salehi e Arsham Rezaei, altrimenti «porrò fine alla mia vita in segno di protesta contro la dittatura di Khamenei e dei suoi soci». Quella di Sanjari è la storia della maggior parte degli attivisti iraniani: di casa a Teheran, quasi subito si era unito ai movimenti studenteschi e per questo era stato arrestato più volte. Poi una pausa all’estero: prima in Norvegia, poi in America, a Washington, dove ha lavorato per Voice of America. Nel 2015 era però tornato in Iran per stare accanto alla madre anziana. Ed è stato subito arrestato di nuovo, trascorrendo tre anni dietro le sbarre. Di nuovo libero, ha raccontato delle torture subite e di essere stato costretto al ricovero in un ospedale psichiatrico in cui aveva subito «per nove volte cure forzate con scosse elettriche e l’iniezione di sostanze» di cui non conosceva la natura, un destino oscuro toccato a tanti detenuti.
Neppure con l’elezione del presidente Pezeshkian la situazione è migliorata. «Non è cambiato nulla e nessuno si aspettava che cambiasse qualcosa», scandisce per bene Esan, un militare dell’esercito iraniano che non vede di buon occhio le Guardie della rivoluzione e che cerca di aiutare come può i giovani. «Il nuovo presidente è leale al leader. E se non fosse stato leale ad Ali Khamenei, non sarebbe diventato presidente, perché qui non abbiamo elezioni democratiche. Pezeshkian potrebbe provare a migliorare le relazioni con l’Occidente, ma per i diritti umani in Iran non ci saranno cambiamenti. Il regime reprime le rivolte perché sa benissimo di non avere sostegno della gente, ma sa anche che la popolazione è disperata ed esasperata per la crisi economica. Non bisogna dimenticare che abbiamo a che fare con un regime altamente corrotto e incompetente, che non è in grado di risolvere i problemi quotidiani delle persone». Sahar è docente di Sociologia all’Università di Mashhad e spiega a TPI: «Le autorità iraniane hanno usato e stanno usando il conflitto tra Israele e Hamas come un’opportunità per aumentare la repressione in Iran. Sapevano bene che l’attenzione del mondo era rivolta principalmente lì e al ruolo che aveva l’Iran prima nel conflitto vero e proprio, poi con la questione del nucleare. L’Occidente è stato molto più attento nel criticare il nostro Paese per come si muoveva al di fuori dei confini che a condannarlo per le violazioni dei diritti umani al suo interno. Non è un caso che, dopo che Hamas ha attaccato Israele, abbiamo assistito a un rapido aumento del numero di esecuzioni con una media di tre al giorno per diversi mesi». Di più: «La minaccia più grande per il regime iraniano», ci spiega Sahar, «è il popolo iraniano stesso, coloro che sono scesi in piazza. Israele non rappresenta una minaccia esistenziale per l’Iran, né gli Stati Uniti, ma le giovani donne e i giovani uomini iraniani sì. Per questo le autorità iraniane continueranno a fare del loro meglio per mantenere il livello di tensione abbastanza alto, in modo che la comunità internazionale non guardi a quello che stanno combinando dentro il Paese». Farzad e Sepideh, prima di salutarci, lo ricordano: «Non è mai stata svolta nessuna indagine sulle violazioni dei diritti umani e sui crimini di diritto internazionale commessi dalle autorità iraniane durante e dopo le proteste. Ma in questo momento, la maggior parte della gente, ha un’altra emergenza da affrontare».
Emergenza economica…
L’altra emergenza interna al Paese di cui tutti parlano (e da cui la resistenza del movimento Donna, vita, libertà teme di restare schiacciata, come spiegano gli attivisti ascoltati da TPI, «perché sta diventando una questione contingente, di sopravvivenza quotidiana») è quella che sta portando nelle piazze i cittadini esasperati dall’alto costo della vita, dai bassi salari e dall’impoverimento generale. I lavoratori chiedono migliori condizioni di lavoro e la crisi energetica e finanziaria sta minando la ripresa economica, specie perché l’esecutivo iraniano convoglia buona parte delle risorse collettive nei diversi conflitti in Medio Oriente (Gaza, Libano, Yemen) contro “il nemico israeliano”. Questo tipo di proteste si stanno moltiplicando. Alla fine del 2024, i lavoratori della raffineria South Pars Gas Complex di Asaluyeh, un centro nevralgico per la produzione di gas naturale iraniano sul Golfo Persico, si sono riuniti per invocare il pagamento degli stipendi. Alcuni educatori in pensione hanno manifestato di fronte all’ufficio presidenziale della capitale, dove le contestazioni sono diventate sempre più frequenti negli ultimi mesi: i cittadini, categoria dopo categoria, stanno dando voce alle loro frustrazioni, affidate a striscioni che sottolineano la disparità tra la ricchezza di risorse della Repubblica islamica e le loro difficoltà economiche. Il settore del petrolio e del gas ha sostituito sempre più spesso i dipendenti regolari con lavoratori a contratto, esponendoli a condizioni di lavoro precarie e a salari inadeguati: non chiedono solo aumenti salariali, ma anche una migliore sistemazione nei dormitori e misure di sicurezza sul posto di lavoro. «Queste proteste in particolare», ci spiega Sattar, un attivista che fa parte del sindacato, «rivestono un’importanza significativa, perché i lavoratori di dodici raffinerie all’interno del complesso del gas di Pars si sono uniti, dimostrando una forte solidarietà contro le autorità». Anche gli infermieri e gli operatori sanitari hanno inscenato nuove proteste, iniziate ad agosto con uno sciopero su larga scala in cinquanta città, coinvolgendo una settantina di ospedali. Anche in questo caso le richieste ricalcano quelle gridate dalle altre categorie di lavoratori: salari più alti, tariffe infermieristiche aggiornate, retribuzione degli straordinari e prestazioni sociali. Nonostante gli sforzi costanti, le loro rimostranze rimangono in gran parte inascoltate a causa del significativo deficit di bilancio del governo, che supera il 50 per cento. Basti pensare che molti lavoratori in Iran attualmente sono costretti a sopravvivere con un reddito mensile di circa 200 dollari.
…e crisi sociale
In parallelo, la Repubblica islamica sta affrontando una grave crisi energetica. L’estate scorsa, ripetute interruzioni di corrente hanno dimezzato le forniture di elettricità industriale e causato diffusi blackout. I segnali di una grave carenza di gas per l’inverno hanno fatto scattare un campanello d’allarme: in questi giorni i cittadini di Teheran e Tabriz sono rintanati nelle case perché fuori non si riesce a respirare. «Non ci sono più né gas né benzina. Per riuscire a produrre corrente, stanno utilizzando gli scarti del petrolio delle centrali: chi esce di casa si sente soffocare, occhi e gola bruciano», sono le testimonianze dei residenti. La crescita della produzione di gas naturale è rallentata in modo significativo, soprattutto a causa dell’invecchiamento del giacimento di South Pars, responsabile del 75 per cento della produzione complessiva. Il declino, unito alle sanzioni statunitensi e occidentali che limitano l’accesso a tecnologie avanzate, ha aggravato la situazione, mentre il tasso di crescita della produzione negli ultimi tre anni è un terzo di quello del decennio precedente. Secondo un recente rapporto pubblicato dall’agenzia iraniana di notizie sul lavoro Ilna, il costo dei beni e dei servizi essenziali è aumentato di almeno il 40 per cento negli ultimi quattro-cinque mesi, con un’inflazione in rapida ascesa che ha spinto i cittadini iraniani in una crisi sempre più profonda, un baratro che va di pari passo con l’aumento del costo della vita. L’aumento dell’inflazione, combinato con l’abolizione dei controlli governativi sui prezzi, ha lasciato via via sempre più famiglie in difficoltà: «Qui – ci spiega Layla, docente di Economia all’Università Kharazmi, a Teheran – la maggioranza delle persone non riesce ormai più a permettersi l’alloggio, il cibo e le utenze. Come ha certificato il Centro statistico iraniano, i prezzi degli affitti urbani sono aumentati del 42 per cento nell’arco dell’ultimo anno (il dato è aggiornato a novembre 2024 – ndr). Nel solo mese di novembre, gli affitti sono aumentati del tre per cento. Questo livello di inflazione non ha precedenti nell’intera storia dell’Iran».
Una frana sociale che il governo si limita ad osservare, senza mettere in campo alcun ammortizzatore sociale. «Abbiamo squilibri significativi nei settori dell’acqua, dell’elettricità, del gas e dell’ambiente, alcuni dei quali sono sull’orlo del disastro», ha ammesso il 22 novembre il presidente Masoud Pezeshkian, riconoscendo la gravità della situazione. L’impennata del costo dei beni di prima necessità ha costretto molti a tagliare le spese essenziali, tra cui cibo e assistenza sanitaria. «E quando non si ha da mangiare per sé e per i propri figli – ci ricorda Layla – è più facile che le battaglie per i diritti umani passino in secondo piano, specie se si è completamente soli a livello internazionale. Di questo hanno paura i nostri giovani, che però non vogliono più tornare indietro». A costo di rimetterci la vita.