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Home » Esteri

I dieci anni di Erdoğan

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Ritratto di un leader che sa come parlare al proprio popolo

La festa gli è stata rovinata da una banale influenza. Il 13 marzo, giorno prima del suo decennale da primo ministro della Turchia, e dopo una visita a sorpresa in ospedale, Recep Tayyip Erdoğan ha confessato: “Mi servono un paio di giorni di riposo”. Il clima pazzo e crudele di queste latitudini gli ha negato una giornata storica per lui e per un Paese intero che, elezione dopo elezione, lo ha incoronato come l’altro Atatürk – quello conservatore – capace di rovesciare gli equilibri come solo il padre della patria Mustafa Kemal aveva saputo fare quasi un secolo prima.

Che si ami o si odi, suscita passioni sconsiderate come accade solo ai grandi personaggi. Da queste parti, l’uomo forte di un Paese piuttosto incline a cedere al fascino di leader iconici è semplicemente Tayyip: uno di famiglia, capace di incarnare splendori e miserie della Turchia del nuovo millennio. Come ci sia arrivato, è oggetto di un vivacissimo racconto popolare. Chi lo avrebbe immaginato nei saloni del Cremlino o della Casa Bianca quando da ragazzino correva per le stradine polverose del rione popolare di Kasımpașa a Istanbul, che con la sua fittissima trama di abitazioni sovrasta il Corno d’Oro? Eppure, in quello stesso quartiere sorge oggi uno stadio a lui dedicato: 14 mila posti e il campo che si vede dalla strada a far da cornice a un’ambiziosa squadra di serie A. Calciatore lui stesso in gioventù e tifosissimo del Fenerbahçe, è anche così che Erdoğan riesce meglio di tutti a parlare alla pancia dei turchi.

Certo, non è tipo da dimenticare le sue origini. Anzi: per lui è un punto d’orgoglio l’adolescenza vissuta di espedienti vendendo simit – il tipico anello di pane con semi di sesamo – o facendo il parcheggiatore nei club esclusivi della borghesia laica cui 40 anni dopo avrebbe sottratto potere e privilegi.

È insomma anche per la sua biografia che una grossa fetta della Turchia lo sente vicino, umano, sincero. La mancanza di diplomazia che spesso ha fatto storcere il naso alle cancellerie straniere è in patria un elemento di forza: per il suo elettorato – larghissimo e interclassista – Tayyip è l’uomo che parla fuori dai denti e, unico, osa dire quello che pensa. È così che ha trasformato un clamoroso incidente diplomatico nel suo capolavoro politico: a pochi giorni dall’operazione ‘Piombo Fuso’, nel gennaio 2009, Erdoğan abbandonò il palco del World Economic Forum di Davos dove sedeva il presidente israeliano Shimon Peres dopo uno show dialettico memorabile condito con il suo stentatissimo inglese e iniziato con un lapidario: “Voi sapete molto bene come uccidere”. Parole che ne hanno fatto il nuovo eroe del mondo arabo, grazie anche all’assalto alla Mavi Marmara e alla definitiva rottura con Israele, in un crescendo sfociato nella definizione del sionismo come “crimine contro l’umanità”.

La sua rivoluzione conservatrice ha radici lontane che affondano nella Turchia che saltava da un golpe all’altro. Laureatosi in Economia e Commercio all’università di Marmara, nel 1978 sposa Emine, futura première dame velata che gli darà quattro figli, e con lei condivide l’attivismo nei movimenti conservatori islamici quando questi erano marginali o fuorilegge. Anche lì marca presto la sua impronta. Raccontano che mentre l’esercito custodiva la laicità ad armi spianate e gli imam condannavano l’immoralità dei costumi occidentali, lui – pure educato in una scuola religiosa – pensasse invece a come allargare il bacino elettorale, cercando voti persino nelle case di tolleranza. Leggende o meno, svelano bene quella che, insieme all’ambizione, è forse la maggior dote che l’uomo politico ha affinato nel tempo: il pragmatismo.

Prende così il treno della democrazia (anzi, con le sue parole, il “tram che ti porta alla tua destinazione, e da cui poi scendi”) e nel 1994 corona la sua ascesa diventando sindaco di Istanbul. La parabola ha però i suoi momenti bui: pochi anni dopo deve scontare una condanna a 4 mesi di prigione per incitamento all’odio religioso dopo aver ripreso una frase del poeta nazionalista Mehmet Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”.

Ma Erdoğan non è tipo da darsi per vinto. Ottenuta la restituzione dell’elettorato passivo, si è seduto sulla poltrona di premier e non l’ha lasciata più trasformando l’Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), di cui è leader indiscusso, in una formidabile macchina da voti. Nel bilancio del suo decennio ci sono i trionfi economici e le grandi riforme (specie nel primo mandato) ma anche una discussa attitudine autoritaria che lui nega aspramente.

Il senso critico non pare però il suo forte. E oggi rischia almeno qualche eccesso nel culto della personalità. Come quando a metà novembre gli è stato assegnato un dottorato honoris causa dall’università Recep Tayyip Erdoğan (sic!) di Rize, città del mar Nero da cui proviene la sua famiglia.

Messa da parte l’immagine da ‘radicale islamista’ (“Quei giorni sono finiti. Adesso siamo un partito nuovo”), ha creato un regno di cui – anche per mancanza di avversari – non si vedono i confini. Prima della fine dell’estate sarà il più longevo premier della Turchia multipartitica. Poi, lascerà per diventare presidente, il primo eletto dal popolo. In qualsiasi veste, il suo obiettivo dichiarato resta il 2023, centenario della Repubblica. La corsa al ventennio è già partita.

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