La guerra in Iran e la variabile Trump nel nuovo dis-ordine mondiale

L'assalto di Israele contro Teheran. Il voltafaccia degli Usa sui negoziati nucleari. L’ipotesi di un Putin “pacificatore”. La Cina ai margini. E un’Europa impotente. Così la guerra alla Repubblica islamica manda in fumo i piani di tutte le grandi potenze
Centinaia di missili scagliati a più di mille chilometri di distanza. I vertici militari di un Paese grande cinque volte l’Italia sterminati nel giro di un’ora. Intimazioni ripetute a evacuare una capitale mondiale e i suoi oltre 10 milioni di abitanti. Si apre così il nuovo capitolo della “terza guerra mondiale a pezzi”, ancora una volta in Medio Oriente.
Con gli attacchi iniziati il 13 giugno, in cui Israele ha ucciso 21 capi dell’esercito e delle Guardie rivoluzionarie iraniane e 10 scienziati nucleari, i bombardamenti sui centri abitati e l’intervento, poco più di una settimana dopo, degli Stati Uniti, la regione è spinta nuovamente verso territori inesplorati. Tra gli obiettivi, oltre alla distruzione del programma nucleare iraniano, citato come finalità principale dell’attacco scagliato nella notte del 13 giugno, Israele non ha nascosto la volontà di rovesciare il regime di Teheran.
Già dalle prime battute, questo nuovo conflitto ha rappresentato un salto di qualità rispetto ai bombardamenti di aprile e ottobre dello scorso anno, che avevano rappresentato i primi attacchi diretti tra i due Paesi. Dopo l’insediamento a gennaio di Donald Trump, suo storico alleato, Israele non ha tardato ad alzare il tiro e tentare nuovamente la carta dello “escalate to de-escalate”, l’escalation che porta alla de-escalation. Ossia l’idea che tramite azioni deliberate ed eclatanti si possa piegare l’avversario e raggiungere i propri obiettivi. Mentre la catastrofe umanitaria di Gaza, le accuse di genocidio, il mandato d’arresto internazionale per Benjamin Netanyahu finiscono sempre più sullo sfondo.
«Negoziati come copertura»
A preparare il terreno all’attacco del 13 giugno, secondo diverse ricostruzioni, sarebbero stati gli ultimi mesi di diplomazia e di scelte dell’amministrazione Trump. Lo ha sostenuto, all’indomani dell’attacco israeliano, il Wall Street Journal secondo il quale le negoziazioni per il programma nucleare iraniano «si sono rivelate la copertura perfetta per un attacco a sorpresa».
Iniziati ad aprile, i negoziati si sono tenuti in un clima di sfiducia, data la storica contrarietà di Trump all’accordo per il nucleare iraniano, da cui si era ritirato durante il suo primo mandato. Questo non ha impedito di tenere cinque round di colloqui in cui è emersa come centrale la questione dell’arricchimento dell’uranio. L’Iran sostiene di essere pronto ad accettare alcuni limiti all’arricchimento, come avveniva con l’accordo del 2015, in cambio di garanzie certe che Washington non rinneghi un futuro accordo sul nucleare. La “linea rossa” di Teheran, ribadita a più riprese, è il divieto a qualsiasi accordo che vieti l’arricchimento a fini civili, come richiesto invece dagli Stati Uniti, nonostante alcune aperture trapelate sulla stampa.
Il sesto round era previsto per domenica 15 giugno in Oman. Secondo il Wsj, la prospettiva dell’incontro avrebbe illuso i vertici della repubblica islamica riguardo le reali intenzioni della Casa bianca, rendendo possibile l’effetto sorpresa. Secondo il quotidiano newyorkese «è stato il processo diplomatico a rendere possibile la campagna militare di Israele» che ha finito per sferrare l’attacco poche ore dopo la scadenza di 60 giorni che Trump aveva indicato ad aprile per portare a termine i negoziati.
Anche prima dell’intervento statunitense, chiesto a gran voce da Israele, Trump era tornato a parlare di negoziati e aveva dato una scadenza di due settimane prima della decisione «se dare o meno il via». Dopo poco più di un giorno è arrivata la conferma dell’attacco a Fordo, uno dei due principali siti di arricchimento dell’uranio dell’Iran, costruito a una profondità stimata di 80-90 metri. All’attacco, condotto con bombe da 13,6 tonnellate di cui dispongono solo gli Stati Uniti, la Repubblica islamica ha poi risposto con il lancio di missili contro basi statunitensi in Qatar e in Iraq.
Se la disponibilità a tornare alla diplomazia non è mancata, come dimostrano i colloqui diretti tra il ministro degli Esteri iraniano Araghchi e l’inviato speciale statunitense Witkoff, il rischio per l’Iran è anche di minare la credibilità di qualsiasi figura o istituzione coinvolta in trattative ritenute da molti un tranello, per porre fine a un conflitto iniziato anche con il tentativo di uccidere Ali Shamkhani, consigliere dell’ayatollah Khamenei che supervisionava il dossier nucleare.
A complicare ulteriormente il quadro sono anche le posizioni europee, che si sono fatte più rigide rispetto alle trattative che avevano portato al Piano d’azione congiunto globale, l’accordo del 2015. I firmatari europei di quell’accordo, Regno Unito, Francia e Germania hanno avvertito la controparte iraniana che Teheran dovrà rinunciare alla sua linea rossa e procedere verso l’azzeramento dei livelli di arricchimento dell’uranio. Emmanuel Macron ha inoltre dichiarato che si dovrà discutere della limitazione dell’attività missilistica iraniana e del finanziamento dei gruppi terroristici. Una posizione a cui i Paesi europei non si erano mai avvicinati prima e che li spinge sempre di più verso quella di Trump, che chiede lo smantellamento del programma nucleare iraniano.
Dal punto di vista diplomatico, gli europei hanno ancora una qualche leva, in quanto ancora parte dell’accordo sul nucleare del 2015. Sono gli unici che possono infatti attivare un meccanismo, il cosiddetto “snapback”, che consente di ripristinare tutte le precedenti sanzioni Onu nel caso venga contestata una violazione dell’accordo da parte di Teheran. A fine aprile, i tre Paesi hanno annunciato che entro agosto avrebbero attivato il meccanismo, che scade quest’anno, se i colloqui con gli Stati Uniti non avessero portato a un accordo, dicendosi anche contrari a qualsiasi opzione militare.
Molti esperti dubitano che Israele, o gli Stati Uniti, possano far collassare il regime iraniano ricorrendo unicamente alla guerra aerea, anche nel caso dell’uccisione della guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. Un’eventualità che il primo ministro israeliano non ha comunque escluso.
Intervistato dall’emittente statunitense Abc nella settimana precedente l’intervento statunitense, ha tenuto a sottolineare che la morte del capo di stato iraniano «non porterebbe a un’escalation, ma metterebbe fine al conflitto».
Anche in caso di successo, avvertono gli analisti, un nuovo regime potrebbe non essere meno determinato a ottenere un’arma nucleare. Con lo spettro di una guerra civile prolungata, come quella scoppiata dopo il 2011 in Siria, o del “failed state” come in Libia. E la possibilità che la “terza guerra mondiale a pezzi” si trasformi via via «in un vero e proprio conflitto globale» come sosteneva Papa Francesco.
Torna il “regime change”?
Nonostante i rischi legati a uno scenario del genere, l’ipotesi del “regime change” viene presentata sempre più apertamente come auspicabile. «Perché non ci dovrebbe essere un cambio di regime???», ha chiesto Donald Trump in un post sul suo social Truth dopo l’attacco sferrato alle prime ore di domenica 22 giugno contro l’impianto di Fordo.
«Non è politicamente corretto usare il termine “regime change”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di RENDERE L’IRAN DI NUOVO GRANDE, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime???», ha insistito il tycoon newyorkese, in contraddizione con le rassicurazioni offerte fino a poco prima da parte dei membri della sua amministrazione. Come il segretario alla Difesa Pete Hegseth, il quale aveva assicurato che «la missione non era e non è volta a un “regime change”». Un messaggio ribadito anche dal vicepresidente J.D. Vance, che come diverse personalità del mondo Maga stanno cercando di trovare un equilibrio tra le scelte del loro beniamino e il ricordo della “War on Terror”.
Come sembrano indicare anche i sondaggi, molti sostenitori di Trump e dello slogan “Make America Great Again” (o Maga) avevano interpretato le sue prese di posizione in campagna elettorale come una promessa di non coinvolgere gli Stati Uniti in nuovi conflitti in Medio Oriente. Steve Bannon, ex “capo stratega” di Trump durante il suo primo mandato, ha provato a rispondere a queste preoccupazioni dedicando al tema alcuni episodi del suo podcast War Room. Con tono acceso, ma senza mai mettere in discussione l’appoggio al leader. Scagliandosi contro le “forever wars”, l’ex presidente di Breitbart News, sito di riferimento per l’alt-right statunitense, ha ribadito che Trump è stato eletto proprio per la sua posizione contro le guerre “eterne” lanciate dopo l’11 settembre. Ma riguardo l’inevitabile scelta di attaccare, (anticipato nel podcast di sabato 21 giugno con un laconico «la festa si farà»), ha comunque assicurato che «il movimento MAGA sosterrà il presidente Trump». «Vi dirò, se il presidente, in qualità di comandante in capo, prende una decisione in questo senso, si fa avanti e spiega alla gente come è arrivato alla decisione, il movimento Maga» continuerà ad appoggiarlo, anche se «perderà alcuni sostenitori».
Trump non sembra preoccupato di perdere consensi. «I miei sostenitori sono più innamorati di me oggi, e io sono più innamorato di loro, più di quanto non lo fossero durante le elezioni, quando abbiamo avuto una vittoria schiacciante», ha detto quattro giorni prima dell’attacco statunitense. «Forse ci sono persone che ora sono un po’ infelici, ma ce ne sono anche altre che sono molto felici, e ci sono persone al di fuori della base che non riescono a credere che questo stia accadendo, sono così felici», ha detto.
Questo nonostante un sondaggio diffuso lo stesso giorno avesse rilevato che il 53 per cento degli elettori che hanno sostenuto Trump alle elezioni presidenziali del 2024 non vogliono che il Paese si unisca agli attacchi di Israele. Tra tutti gli elettori del sondaggio Economist/YouGov, il 60 per cento si è detto d’accordo sulla necessità di un passo indietro rispetto agli impegni militari.
Le divisioni nel Pentagono
Anche all’interno del Pentagono sarebbero emerse divisioni, subito smentite, tra chi è favorevole a un maggiore coinvolgimento nel conflitto tra Israele e Iran e chi per anni ha sostenuto la necessità di ridurre l’impegno statunitense nei teatri europei e mediorientali per concentrare maggiormente le forze sull’Asia e in particolare sul contrasto alla Cina. Capofila di quest’ultima fazione è il numero tre del Pentagono, il sottosegretario alla Difesa Elbridge Colby, una delle voci più note tra i repubblicani che sostengono il “pivot to Asia”. Nipote dell’ex direttore della Cia William Colby, è già stato membro della prima amministrazione Trump.
Secondo quanto riporta Ben Smith per il sito Semafor, nei primi giorni del conflitto la posizione di Colby si è scontrata con quella dei vertici militari, che hanno chiesto maggiori risorse per sostenere Israele. Tra chi sostiene quest’altra linea c’è il generale Michael Kurilla, comandante dello United States Central Command (Centcom), che opera in Medio oriente, Asia centrale e parte dell’Asia meridionale.
Colby ha opposto resistenza a queste richieste, secondo quanto riferito a Semafor da persone che appoggiano entrambi gli schieramenti in questo dissidio «di lungo corso», arrivando a scontrarsi con «fedelissimi» di Donald Trump.
Non sarebbe neanche la prima volta. Già a febbraio, esponenti del Pentagono freschi di nomina, con idee simili a quelle di Colby, si sarebbero espressi contro azioni come il trasferimento, avvenuto ad aprile, di una batteria di missili Patriot dalla Corea del Sud al Medio Oriente. Secondo il pensiero di Colby, decisioni di questo tipo pregiudicherebbero la posizione degli Stati Uniti in un possibile conflitto con la Cina o la Corea del Nord.
Mosca e Pechino all’angolo?
Le ricadute del conflitto sugli equilibri globali non stanno facendo discutere solo nella Casa bianca. Anche la posizione di Russia e Cina sembra aver suscitato qualche interrogativo tra chi si riteneva loro partner stretto. Nelle prime fasi del conflitto le due potenze sono rimaste sostanzialmente in disparte limitandosi a offrire a offrire parole di sostegno all’Iran, con cui entrambi i Paesi hanno rapporti economici e anche militari. Una freddezza che ha indispettito gli stessi rappresentanti della Repubblica islamica, che secondo Reuters si sentirebbero traditi dalle due potenze
Xi Jinping e Vladimir Putin hanno discusso del tema in una telefonata tenuta dell’intervento statunitense, in cui Xi Jinping ha esortato le parti in conflitto, e «in particolare Israele», a cessare il fuoco il prima possibile per evitare ulteriori escalation. Senza citare direttamente gli Stati Uniti, Xi ha inoltre sottolineato che le «grandi potenze» che hanno un’influenza speciale sulle parti in conflitto dovrebbero impegnarsi per «calmare la situazione, non il contrario». Secondo il Cremlino, Putin e Xi hanno condannato congiuntamente gli attacchi israeliani, definendoli una violazione dello Statuto delle Nazioni Unite. Un passaggio che non è stato citato nella nota di Pechino.
Un nodo su cui la Cina è stata chiamata direttamente in causa è quello della possibile chiusura dello Stretto di Hormuz. In un’intervista il segretario di Stato statunitense Marco Rubio ha chiesto a Pechino di «contattare» l’Iran per impedire, come ritorsione agli attacchi, la chiusura dello stretto in cui transita circa il 20 per cento del petrolio mondiale. «Sarebbe un suicidio economico per loro. E noi abbiamo ancora delle opzioni per affrontare la situazione, ma anche altri Paesi dovrebbero valutarla. Danneggerebbe le economie di altri Paesi molto più della nostra», ha evidenziato il capo della diplomazia statunitense. La richiesta del segretario di Stato potrebbe finire per pesare nelle trattative sui dazi in corso con la Cina, che ha con Teheran un rapporto piuttosto sbilanciato. Pechino acquista circa il 90 percento delle esportazioni di petrolio dell’Iran, che però rappresentano solo il 10 percento delle importazioni di petrolio della Cina.
Anche il presidente russo, alle prese con l’invasione dell’Ucraina, è sembrato poco propenso a scontrarsi con gli Stati Uniti sulla questione dell’Iran, nel momento in cui Trump cerca di ricucire i rapporti con Mosca. Piuttosto ha offerto a più riprese di negoziare la fine del conflitto, incassando il no di Trump. «Gli ho detto: “Vladimir, mediamo prima sulla Russia, di questo ti preoccuperai dopo”», la risposta ironica del magnate newyorkese, che inizialmente si era detto «aperto» all’idea.
Intervenendo al Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo, Putin ha risposto alle polemiche osservando che il conflitto è «piuttosto unico». Secondo il presidente russo Mosca «intrattiene tradizionalmente relazioni buone e amichevoli con il mondo musulmano. È stato detto qui che dobbiamo mostrare una certa solidarietà, e questo è vero». «Voglio attirare la vostra attenzione sul fatto che in Israele vivono quasi due milioni di russofoni», ha poi aggiunto, «oggi è praticamente un Paese russofono». «Chi ha detto che avremmo dovuto fare di più: cos’altro? Iniziare operazioni di combattimento?» Nonostante le eventuali perplessità degli iraniani, entrati nel gruppo di Paesi Brics nel 2023, Putin si è detto certo che Russia e Cina non stanno creando un nuovo ordine mondiale, ma lo stanno «plasmando». «Il nuovo ordine mondiale sta emergendo in modo naturale: è come il sorgere del sole, non c’è modo di sfuggirgli».