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Home » Esteri

Guerra Israele-Hamas: così Meta oscura il massacro su Facebook e Instagram

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Visualizzazioni in calo. Profili sospesi. Pagine oscurate. Dall’inizio dei raid israeliani, i post e le storie su Gaza pubblicati via Instagram e Facebook sono sempre meno visibili. Per il colosso di Zuckerberg è un bug. Ma per i palestinesi è solo disinformazione

Migliaia di persone in tutto il mondo stanno accusando Instagram e Facebook di oscurare, rimuovere o sopprimere post e stories in cui si nomina la Palestina. È il cosiddetto “shadow ban” (letteralmente “divieto ombra”), una pratica di moderazione dei contenuti attraverso un’alterazione dell’algoritmo che le piattaforme social usano per impedire la circolazione di elementi violenti o a sfondo sessuale.

Libertà al tempo dei social
Invece dal 7 ottobre 2023, utenti provenienti dalla Palestina o che condividono sui social notizie sul conflitto Hamas-Israele hanno visto i loro contenuti silenziati. La denuncia parte anche da giornalisti e personaggi del mondo della cultura, non solo dagli attivisti palestinesi, che comunque dichiarano di subire questa pratica da sempre, solo che adesso ha una risonanza maggiore.

Ad esempio, quando Israele bombarda Gaza durante il Ramadan ad aprile 2022, la top model Bella Hadid denuncia la soppressione di alcuni suoi post social sull’accaduto. «L’idea che anche chi non si occupa direttamente di politica subisce questa limitazione di libertà è grave», dice a TPI Roberto Colella, cantante del gruppo folk La Maschera, anche lui colpito da questa pratica sui social. «Anche quella libertà di facciata che i social dovevano avere è caduta da anni, così come l’illusione della democrazia», continua. «Non credo sia un caso che se scrivi Palestina o Russia, l’algoritmo ti abbassa di tanto le interazioni. Così come c’è il rischio che un post venga rimosso senza che vi siano contenuti contro il regolamento. Non mi sembra un caso».

«Meta ha probabilmente aumentato la moderazione attorno a parole come Gaza e Hamas», ha spiegato a Facta Donata Columbro, giornalista e autrice del libro “Dentro l’algoritmo, le formule che regolano il nostro tempo”. «Negli ultimi giorni è stata un’esperienza collettiva, per molti inesplicabile», ha continuato. «Magari una story aveva 700 visualizzazioni e quella dopo su Israele invece solo 50. Non se ne sono accorte solo le persone che parlano di questi temi, come attivisti e attiviste: in questo caso la pratica della riduzione dell’engagement e della visibilità di alcuni contenuti è stata usata massicciamente, e ha toccato anche vari giornalisti».

La giornalista del New York Times Azmat Khan, vincitrice del premio Pulitzer 2022 per il giornalismo internazionale, ha detto apertamente di essere stata gravemente penalizzata su Instagram dopo aver parlato nelle stories della situazione di Gaza e delle ragioni storico/sociali che hanno portato all’attacco di Hamas di inizio mese. Il giornalista statunitense/kuwaitiano Ahmed Shihab-Eldin, editorialista per Huffington Post e Vice, è stato addirittura sospeso dalla piattaforma.

I Giovani Palestinesi italiani
Sorte simile è toccata a un divulgatore italo-palestinese, Kharem Rohana, che ha dovuto aprire un nuovo account nei primi giorni del conflitto a Gaza visto che Instagram aveva soppresso il suo profilo.

«Meta mi ha sospeso il profilo principale (kharem_from_haifa) ormai quattro volte», scrive dal nuovo profilo (kharem.dalla.palestina) il 20 ottobre. «Si prende giorni per fare controlli e poi ammette che non ci sono violazioni nelle linee guida. Per poi sospenderlo dopo poche ore senza che io abbia aggiunto nessun contenuto. Quindi sospende un profilo appena controllato, per fare nuovi controlli. Farebbe ridere se non fosse censura».

Mentre scriveva, l’attivista e divulgatore si trovava in Palestina, al suo ritorno a Roma è stato picchiato appena è sceso dalla macchina che lo aveva portato a Roma Ostiense, Porta San Paolo. Lì, sabato 28 ottobre, migliaia di giovani si sono dati appuntamento per un grande corteo a favore della Palestina. In testa alla manifestazione le bandiere dei Giovani Palestinesi, organizzazione che da anni si occupa di sensibilizzare i più giovani sulla condizione degli abitanti a Gaza e in Cisgiordania. Un portavoce che preferisce restare anonimo dice a TPI: «Non è dal 7 ottobre che viviamo questa censura su Instagram, la cosa va avanti in pratica da sempre.  Abbiamo aggirato l’algoritmo non scrivendo direttamente Palestina o Gaza e Israele, ma P4l3stin4, G4z4 o Isr43l3. E comunque a volte non funziona», spiega. «Il problema non si risolve così. È chiaro che c’è una censura. Vieni oscurato solo se pubblichi contenuti legati alla Palestina, che è ancora più grave soprattutto in momenti sensibili come questo dove fare informazione è ancora più necessario. È gravissimo ad esempio che addirittura vengano chiuse le pagine come Eye on Palestine, che pubblica quasi in tempo reale i video e i contenuti dalla striscia di Gaza e non solo». La pagina, dopo che della sua sparizione si sono occupati The Guardian e Nbc News, è tornata attiva, ora con 7 milioni e mezzo di follower.

Secondo l’attivista dei Giovani Palestinesi, la censura di Instagram non si limita al profilo dell’associazione. «Anche il mio profilo privato a volte viene oscurato ed è difficile trovarlo anche inserendo il nome completo nella barra di ricerca. Stiamo vivendo una forma di censura che tocca le libertà più fondamentali, appunto quella di espressione. Meta ha comunque dei precedenti di censura delle voci palestinesi, e non essendo un caso isolato viene da pensare che sia una policy dell’azienda».

Le ragioni di Menlo Park
Meta, l’azienda con a capo Mark Zuckerberg che possiede sia Instagram che Facebook (ma anche WhatsApp), ha dichiarato che alcuni di quei post sono stati nascosti alla vista a causa di un bug accidentale nei sistemi della società.

Aya Omar, un ingegnere di intelligenza artificiale, ha detto al New York Times che non era in grado di vedere gli account dei media palestinesi che legge regolarmente non per un bug, ma perché Meta e Instagram stavano bloccando quegli account. E anche l’Hampton Institute, un think tank della Virginia University, ha scritto su X, l’ ex Twitter: «Instagram e Facebook stanno attivamente bloccando i post e le stories su Israele/Palestina, mascherandola come difficoltà tecnica». Pure  Nora Benavidez, consigliere senior al Gruppo di controllo dei media Free Press, ha dichiarato: «Le preoccupazioni di censura e divieto ombra sono perenni sui social media, ma la posta in gioco è molto più alta durante i tempi di guerra – rendendo le implicazioni del mondo reale di tali politiche aziendali opache più terribile».

The Guardian ha riportato le confessioni di un ex dipendente di Facebook con accesso alle discussioni tra gli attuali dipendenti Meta. «La guerra a Gaza ha davvero spinto un sacco di persone oltre il limite», ha dichiarato al giornale britannico. «Non si può continuare a incolpare i difetti quando si sta diffondendo disinformazione, con l’intento di disumanizzare i palestinesi alimentando la narrazione che tutti i palestinesi sono terroristi», ha detto l’ex dipendente, che ha parlato in modo anonimo per paura di ritorsioni.

Se per chi ha lavorato nell’azienda non si tratta di un errore ma, come suggeriscono i Giovani palestinesi, di una politica aziendale, Meta ha risposto tramite Andy Stone, un portavoce, che ha scritto in un post su X: «Abbiamo identificato un bug che ha un impatto su tutte le stories, il che significa che non sono stati visualizzati correttamente, con un risultato significativamente ridotto. Questo bug ha colpito conti ugualmente in tutto il mondo e non aveva nulla a che fare con l’oggetto del contenuto». E pure un utente ha fatto la prova negli ultimi giorni di ottobre e ha mandato i risultati al network ArabNews: un contenuto sulla Palestina ha ottenuto 4 visualizzazioni in due ore, la foto di una gonna 90 in mezz’ora.

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