Gli occhi di Gaza: la portavoce dell’Unicef nella Striscia Rosalia Bollen racconta a TPI l’inferno della guerra per i bambini

“La popolazione dipende totalmente dagli aiuti. Bloccarne l'afflusso per qualsiasi motivo è ingiustificabile. È assurdo veder morire le persone per mancanza di medicinali o per fame”. Il racconto in prima persona della funzionaria dell'Onu a TPI
Se oggi, come portavoce dell’Unicef a Gaza, dovesse rivolgere un appello alle istituzioni internazionali, cosa chiederebbe?
«Organizzazioni umanitarie come l’Unicef hanno a disposizione un’ingente quantità di aiuti pronti a entrare a Gaza. È assurdo continuare a vedere bambini che muoiono di fame o per la mancanza di medicine e attrezzature negli ospedali mentre i carichi sono lì pronti. Soltanto l’Unicef ha a disposizione l’equivalente di mille camion di aiuti umanitari, cibo, farmaci, vestiti e tanto altro. Ora la priorità è aumentare la quantità di aiuti autorizzati a entrare a Gaza. Bloccarne l’afflusso per qualsiasi motivo è una posizione indifendibile e ingiustificabile».
Diamo qualche numero: quanti sono i bambini che attualmente rischiano di morire di fame a Gaza?
«Da oggi fino al marzo del 2026, secondo le nostre ultime stime, almeno 71 mila bambini soffriranno di malnutrizione acuta a Gaza. Tra questi, almeno 14 mila soffriranno di malnutrizione acuta severa, la categoria più grave. Inoltre soffriranno di malnutrizione acuta anche 17 mila tra donne incinte e neo-mamme. Questo è lo scenario che ci aspetta, se non cambieranno le condizioni sul campo».
Sono le conseguenze del blocco degli aiuti?
«Sì e parliamo di un incremento importante perché all’inizio dell’anno prevedevamo che “solo” 60 mila bambini avrebbero sofferto di malnutrizione acuta a Gaza nel 2025. A causa del blocco degli aiuti umanitari prevediamo un ulteriore aumento di quasi il 20 per cento. Da quanto assistiamo nelle nostre cliniche, circa seimila bambini hanno bisogno di cure per malnutrizione acuta».
Ma quanti bambini ci sono oggi a Gaza?
«Attualmente Gaza conta circa 2,1 milioni di abitanti e incredibilmente quasi la metà della popolazione ha meno di 18 anni. Non ho un dato esatto ma credo che in Italia questa percentuale si attesti intorno al 14-15 per cento, nella Striscia invece arriva quasi al 50 per cento, quindi un milione di minori».
Quindi poco più del 7 per cento degli abitanti rischia la fame. E il resto della popolazione?
«Il fatto che “solo” il 7 per cento della popolazione minorenne sia a rischio malnutrizione acuta non significa che il restante 90 per cento non soffra: neanche loro hanno da mangiare a sufficienza. Non è importante infatti soltanto la quantità di calorie che un bambino deve assumere ogni giorno ma anche la varietà della dieta giornaliera. È un problema che ha afflitto Gaza sin dall’inizio della guerra».
Ci spieghi meglio.
«Nei primi 15 mesi del conflitto a Gaza è entrata una quantità molto limitata di aiuti e nella Striscia si trovavano solo riso e prodotti in scatola, come tonno e fagioli. Poi c’è stato il cessate il fuoco durante il quale abbiamo potuto aumentare in un modo significativo la quantità di carichi umanitari inviati nel territorio. Ma parliamo sempre di un’intera popolazione che vive nel bisogno».
Non è stato sufficiente?
«Abbiamo fatto del nostro meglio per distribuire, il più velocemente possibile, i beni importati durante la tregua ma non abbiamo potuto costituire alcuna riserva significativa. Poi, alla fine del cessate il fuoco, è seguito un blocco totale dell’afflusso di aiuti umanitari e di beni commerciali. Così non è entrato più niente nella Striscia».
I numeri, rispetto ad altre crisi in corso come in Yemen e Sudan, sono inferiori. Perché allora a Gaza si parla di crisi umanitaria senza precedenti?
«Perché le condizioni nella Striscia sono diverse dallo Yemen, dal Sudan, dalla Repubblica democratica del Congo, da Haiti e dal Myanmar. In primis, negli altri teatri di crisi nel resto del mondo, continua a funzionare una forma di economia di mercato. In secondo luogo, in Afghanistan, Sudan e Myanmar la popolazione ha spesso la possibilità di fuggire in un’altra provincia, in un’altra regione o addirittura di espatriare in un Paese confinante. Non è certo una situazione facile, anzi perché queste persone si ritrovano a dover abbandonare tutto. Ma, anche a costo di rischi molto gravi, hanno la possibilità di fuggire. La popolazione di Gaza, invece, è al 100 per cento dipendente da tutto ciò che entra nella Striscia».
Perché?
«Perché le frontiere sono chiuse: non possono andare in Egitto, tantomeno in Israele. Non potrebbero lasciare quel territorio nemmeno se volessero. Inoltre, in passato, la Striscia aveva la capacità di coltivare autonomamente frutta, verdura e di produrre altri alimenti».
Ci fa un esempio?
«Le fragole di Gaza: erano davvero rinomate. Ho vissuto tre anni a Gerusalemme prima di trasferirmi nella Striscia e lì mangiavamo le fragole provenienti dalla Striscia. Allora anche la pesca era ben sviluppata. Oggi invece, a causa della distruzione delle infrastrutture, la popolazione non ha più la possibilità di coltivare frutta e verdura o di produrre latticini in autonomia perché tutto il bestiame è morto. Quindi gli abitanti sono interamente dipendenti da tutto ciò che noi possiamo fornire loro».
La differenza la fanno le alternative a disposizione della popolazione?
«È una situazione di eccezionale gravità perché, anche se le condizioni in Sudan o in Yemen possono sembrare ancora più gravi in termini di cifre, in quei teatri esistono ancora soluzioni alternative. Lì la popolazione ha la possibilità, se non di essere autosufficiente quantomeno di spostarsi. È doloroso paragonare le crisi causate da diversi conflitti perché non bisogna incappare nel rischio di minimizzare, ad esempio, quanto sta accadendo in Sudan. Ma abbiamo anche il dovere di spiegare perché abbiamo tanta paura per gli abitanti di Gaza, dove la popolazione è molto giovane. I bambini non hanno scelto di ritrovarsi coinvolti in questa guerra: non sono responsabili di questo conflitto e non hanno i mezzi per poter uscire da questa situazione. Parliamo di un milione di minori esposti a rischi molto gravi come la fame e la malnutrizione. Anche se riescono a sopravvivere, senza un apporto sufficiente di vitamine, lipidi, minerali, etc., il loro sviluppo fisico, psicologico, socio-emozionale subirà, a lungo andare, conseguenze importanti».
Senza parlare del rischio di morire sotto le bombe.
«Purtroppo i bombardamenti proseguono e, anche se può sembrare assurdo vista la già drammatica situazione, le condizioni sul campo continuano a peggiorare di ora in ora. Le bombe colpiscono le tendopoli, le scuole trasformate in rifugi per sfollati e gli ospedali: non ci sono spazi dove la popolazione può dirsi al sicuro».
Nemmeno nelle strutture sanitarie?
«Alcuni bambini muoiono proprio per la carenza di assistenza medica. Personalmente avevo intervistato Islam, un bambino di 11 anni che soffriva di leucemia. Qualche settimana dopo ho richiamato i genitori per sapere come stava, ma purtroppo era morto. E la cosa tragica è che Islam non è un’eccezione. Tanti bambini infatti sono morti per la mancanza di servizi sanitari».
Ci racconta cosa sta succedendo?
«Io vivo in una guest house dell’Unicef ad al-Mawasi, a Rafah, nel sud della Striscia. Partecipo però a diverse missioni attraverso tutto il territorio costiero, quindi mi reco spesso anche nel nord e nel centro della Striscia, ma passo la maggior parte del mio tempo ad al-Mawasi e a Khan Younis. Qui si trova l’ospedale Nasser, dove vado ogni settimana, o quasi, perché l’Unicef sostiene questa struttura sanitaria, fornendo loro, ad esempio, incubatrici per neonati. Il direttore della pediatria mi ha fatto sapere che ogni giorno nel suo reparto muoiono almeno due o tre bambini e non perché non sappiano come curarli ma perché sono rimasti senza medicinali e perché le attrezzature necessarie sono state distrutte».
In che senso “distrutte”?
«Nei depositi dell’ospedale Nasser ho visto, personalmente, incubatrici danneggiate da fori di proiettile».
Colpite intenzionalmente?
«Sì, sono state danneggiate volontariamente in modo che l’ospedale non potesse più utilizzarle»
Con quali conseguenze?
«In caso di parti prematuri, i neonati hanno bisogno di cure specifiche e ovviamente l’incubatrice è molto importante per mantenerli al caldo. Ma tanti altri sono talmente piccoli da arrivare a pesare anche meno di un chilo o poco più. Magari i loro polmoni non si sono ancora sviluppati e, se questo succede in Italia, possono essere aiutati da un ventilatore polmonare automatico, che consente loro di respirare. Senza queste macchine però, senza incubatrici né respiratori, muoiono. Non hanno nessuna chance. Se invece fossero nati in Italia avrebbero una possibilità di sopravvivere».
Quante persone vivono nella guest house dell’Unicef a Rafah?
«Può accogliere fino a 17 persone, anche se attualmente siamo in otto. Abbiamo però una decina di strutture simili nella Striscia di Gaza, di cui tre internazionali, compresa quella dove mi trovo attualmente con altri colleghi stranieri. Altre cinque sono invece riservate al nostro staff palestinese, perché anche i miei colleghi in loco sono diventati profughi avendo perso la casa e tutto il resto».
La definirebbe un posto sicuro?
«Non esistono luoghi sicuri a Gaza, per nessuno. Ogni giorno i bombardamenti colpiscono ovunque nella Striscia. Ad oggi, 25 maggio, l’81% dell’intero territorio è sottoposto a ordini di evacuazione o è stato dichiarato zona di combattimento dalle autorità militari israeliane. Vuol dire che alla popolazione locale resta meno del 20% della Striscia dove potersi rifugiare. La guest house di al-Mawasi, a Rafah, si trova in una zona cosiddetta “sicura”. Anche se, ancora ieri, l’area è stata sorvolata da un quadricottero, un drone militare, che ha colpito una tendopoli proprio accanto all’edificio. La narrazione basata su ordini di evacuazione e zone sicure per la popolazione è tutta finzione».
Cosa la spinge a lavorare in un contesto tanto pericoloso?
«Non era il mio sogno fin da piccola, lo ammetto. Ma sono due i motivi che mi spingono a restare: il primo è che i miei colleghi palestinesi sono fantastici, incredibili, persone davvero brave e competenti, che lavorano sodo. Hanno perso tutto, tranne il lavoro. Noi lavoriamo sette giorni alla settimana, ogni giorno. Anche se per me è fisicamente terribile, perché sono sfinita, capisco che questa routine concede un minimo di stabilità e di normalità ai miei colleghi palestinesi. Lo devo a loro e alla mia squadra a Gaza, devo sostenerli».
Il secondo motivo?
«L’altra ragione è che tante volte ti rendi conto di come i nostri aiuti salvino letteralmente delle vite. Anche se dovessimo riuscire a salvarne o a cambiarne soltanto una, allora ne sarà valsa la pena».
Ci fa un altro esempio?
«Un paio di settimane fa abbiamo installato due incubatrici e altrettanti ventilatori polmonari negli ospedali di al-Rantisi e al-Sahaba a Gaza City, nel nord della Striscia. Due giorni dopo siamo tornati per verificarne il funzionamento e che il personale sapesse utilizzare queste attrezzature. Tutte e quattro erano occupate da bambini nati prematuri, che altrimenti sarebbero morti».
Ha mai paura?
«Ovvio. Qui sai di non essere davvero al sicuro in nessun posto. Ho anche perso dei colleghi. A fine marzo, ad esempio, è stato ucciso un operatore straniero. Senti tutto il tempo il boato degli aerei, il rumore dei droni e anche se provi a non pensarci, anche se sei impegnata a lavorare su altro, qualcosa nel tuo subconscio ti tiene tutto il tempo sulle spine».
Riesce a dormire?
«Faccio fatica perché i bombardamenti continuano anche di notte. Sulla costa antistante al-Mawasi, a Rafah, incrocia una nave militare che bombarda il territorio dal mare: di solito comincia intorno all’una di notte e provoca un’esplosione ogni ora, così che anche se riesci ad addormentarti, ti svegli continuamente».
Immagino sia una vita che si può fare solo per un periodo di tempo limitato, non per sempre.
«Conosco colleghi che fanno questo lavoro da 30-40 anni e davvero non capisco come ci riescano. Ovviamente resterò qui solo per un periodo e poi andrò a fare qualcos’altro perché per me non è sostenibile. Per questo motivo lavoriamo su turni di quattro, cinque, sei settimane».
Come funziona?
«Lavoriamo a Gaza, ad esempio, per cinque settimane, poi lasciamo la Striscia per sette giorni di riposo e la settimana dopo torniamo».
Come fate con gli spostamenti?
«Noi la chiamiamo “rotation” (letteralmente: alternanza, ndr). Dopo aver passato una settimana a casa, in Italia o nei Paesi Bassi, prendo un volo per Amman, in Giordania. Da qui, ogni martedì e giovedì, parte un pullman che non è riservato solo all’Unicef ma a tutti gli operatori umanitari, in partenza e in arrivo nella Striscia. Nella stessa giornata questo stesso mezzo porta gruppi di attivisti e funzionari delle ong e dell’Onu fino alla frontiera con Israele. Lì c’è un primo controllo di sicurezza, poi un altro pullman ci porta dal valico di confine di Allenby Bridge (tra Giordania e Israele, ndr) fino alla frontiera con Gaza. Qui è previsto un altro controllo, finché non supera il confine dal lato palestinese e arriva alle guest house. Potrebbe sembrare un percorso facile perché in fondo Amman e Gaza distano solo 150 chilometri».
Sembra tutt’altro che facile.
«Di fatti si parte alle 6:00 di mattina dalla capitale giordana e normalmente si arriva alla frontiera con Gaza intorno alle 4:00 o alle 5:00 del pomeriggio e non si arriva alla guest house prima delle 7:00, le 8:00, a volte anche le 9:00 di sera».
Quando è prevista la sua prossima partenza?
«Attualmente sto ancora aspettando il via libera dall’Unicef perché, visti i rischi di fame e malnutrizione corsi dalla popolazione e la parziale riapertura dei valichi all’ingresso di aiuti umanitari e beni commerciali, in questo momento l’agenzia ha dato priorità ai colleghi stranieri con un curriculum sanitario, come agli esperti di squilibri alimentari, o con competenze di ingegneria civile e logistica delle forniture».
Chi c’è ora nella Striscia?
«In questo momento Unicef mantiene sul campo una squadra fissa per Gaza, di cui faccio parte, ma abbiamo anche colleghi con particolari competenze, che attualmente lavorano in altre zone nel mondo. A chi oggi si trova, ad esempio, a Kinshasa (in Repubblica democratica del Congo, ndr), Unicef può chiedere, in via eccezionale, di venire per un mese nella Striscia ad aiutare la nostra squadra dislocata a Gaza. Purtroppo non ho un profilo prioritario ma spero di ripartire tra qualche giorno o al massimo qualche settimana dopo sei mesi di alternanza».
Un tempo quanto ci voleva da Amman alla guest house nella Striscia?
«Oggi ci vogliono in media 12 ore, ma spesso di più».
C’erano meno problemi prima della guerra?
«Era sempre necessario richiedere un’autorizzazione per entrare a Gaza, dove già prima di questo conflitto era in corso una grave crisi umanitaria. Gaza versa in questa situazione dal 2007. Da allora le frontiere sono praticamente chiuse: nessuno può uscire né entrare liberamente».
Quanto pesa l’ombra di Hamas sul blocco degli aiuti?
«Partiamo dal sospetto che Hamas possa dirottare una parte, anche importante, degli aiuti umanitari e dei beni importati a Gaza, per alimentare la guerra. Tanto per cominciare l’Unicef, il cui mandato è fornire aiuto umanitario ai bambini più vulnerabili e che ne hanno bisogno, è interessata a sapere se Hamas intende davvero dirottare le forniture perché questo violerebbe la sua missione. Ma non abbiamo mai ricevuto, né io né i miei colleghi, accuse specifiche in questo senso né abbiamo mai visto prove del dirottamento di carichi umanitari a favore di Hamas. In secondo luogo, quando siamo sul campo e, ad esempio, forniamo cibo ai bambini malnutriti o vacciniamo la popolazione contro la polio non siamo in grado di distinguere tra sostenitori e oppositori di Hamas».
Ci fa un altro esempio?
«Oggi abbiamo distribuito degli speciali integratori alimentari, che tecnicamente si chiamano “supplementi nutrizionali a base di lipidi”: sono semplici bustine, con all’interno una sorta di burro di noccioline, destinate ai bambini che soffrono o che rischiano di soffrire di malnutrizione. Durante la distribuzione sappiamo a quali cliniche dare la priorità e quando arriviamo sul posto abbiamo un elenco di famiglie che sono già state avvisate e che si presentano in clinica con i loro figli. Qui i bambini vengono sottoposti a uno screening, controlliamo e ricontrolliamo il loro stato nutrizionale e di salute e infine forniamo ai genitori queste bustine contenenti pasti iper-proteici, che i loro figli possono assumere direttamente, senza bisogno di cucinarli. Noi identifichiamo i bambini, sappiamo quali soffrono di malnutrizione e quali sono a rischio, ma quando si presentano i genitori, nessuno di loro indossa magliette con la scritta: “Sostengo Hamas”. Non siamo in grado di distinguere i sostenitori dagli oppositori e non ci importa perché il nostro obiettivo è garantire la salute del bambino, anche se il padre o la madre ammettessero di sostenere Hamas. Neanche in quel caso potremmo rifiutare un aiuto al figlio. Le voglio fare un altro esempio».
Prego.
«Nel corso dell’ultimo anno abbiamo organizzato una campagna di vaccinazione contro la poliomielite. In quel caso era importante assicurarsi che tutti i bambini fossero vaccinati per ridurre il rischio di trasmissione del virus. Quando bambini e genitori si presentano nelle nostre cliniche, non chiediamo quali sono le loro idee politiche. Per noi l’importante è fare il nostro lavoro. L’aiuto umanitario deve andare ai bambini che ne hanno bisogno, punto e basta. È l’unico criterio, non le simpatie politiche».
Cosa ne pensa delle accuse mosse da Israele?
«Le agenzie Onu e le ong internazionali sono continuamente accusate di agire in maniera dilettantesca, il che permetterebbe a Hamas di mettere le mani sugli aiuti umanitari. Ma queste accuse non sono mai circostanziate. Nessuno ha mai detto all’Unicef: “Questo camion carico di assorbenti è stato dirottato da Hamas ed è sparito”. Non esistono accuse precise, né contro l’Unicef né contro altre agenzie Onu. Inoltre né io né i miei colleghi abbiamo mai visto una prova di un carico umanitario dirottato a Gaza. Ripeto: saremmo molto interessati a venire a conoscenza di un tale fenomeno perché la nostra missione punta ad assicurarsi che questi aiuti arrivino direttamente ai bambini. Non vogliamo che Hamas saccheggi i carichi per poi provare a rivenderli».
Fila tutto liscio quindi?
«Ovviamente no. Esiste un terzo elemento da tenere in considerazione, che non è legato a Hamas ma piuttosto ai gruppi criminali armati attivi a Gaza».
Ce ne parli.
«È semplice economia: se, a fronte di un’elevata domanda di un determinato prodotto, la sua disponibilità è limitata, allora il suo prezzo aumenta».
Chiaro.
«A Gaza abbiamo creato una situazione in cui i mercati sono ormai vuoti perché nella Striscia non entrano abbastanza beni commerciali e non c’è nemmeno una sufficiente disponibilità di aiuti umanitari. Quindi non c’è quasi più niente e la popolazione è disperata. In questo contesto il commercio è diventato molto lucrativo perché chi riesce a entrare in possesso di determinati beni può rivenderli a prezzi altissimi. Purtroppo però questo problema è stato creato in modo artificiale. Durante il cessate il fuoco, quand’era possibile importare beni e aiuti nella Striscia, non si sono verificati saccheggi».
Zero?
«Zero. Perché potevamo importare quantità sufficienti di diversi beni, dagli aiuti umanitari agli assorbenti, dal sapone ai vaccini, dal cibo per bambini ai prodotti per l’igiene personale».
E oggi?
«I saccheggi a cui assistiamo invece, come quelli avvenuti durante i primi 15 mesi di questa guerra, non sono opera di Hamas ma piuttosto sono figli di azioni che definiamo “opportunistiche”. Sono famiglie o più spesso gruppi organizzati molto bene armati, anche con armi pesanti, rivali di Hamas che provano a rubare i carichi. Durante il cessate il fuoco abbiamo anche assistito a scontri a fuoco tra la polizia fedele a Hamas e questi gruppi».
Ci descrive invece la sua giornata tipo a Gaza?
«Prima del 18 marzo, quando sono ricominciate le operazioni militari, io e i miei colleghi ci alzavamo alle 6:00 del mattino. Poi verso le 7:00 ci recavamo sul campo con le nostre auto blindate per visitare gli snodi di distribuzione degli aiuti e i centri in cui forniamo determinati servizi, come ad esempio le vaccinazioni, gli screening contro la malnutrizione, le forniture di acqua. Questo per quanto riguarda l’attività di monitoraggio e valutazione e anche per poter elaborare rapporti da inviare ai Paesi e agli enti donatori. Personalmente, quando mi trovo in uno snodo di distribuzione degli aiuti ne approfitto sempre per cercare genitori e bambini per intervistarli. Il mio lavoro in fin dei conti è raccogliere le storie di bambini a Gaza per riportare un’immagine accurata di quanto stanno vivendo. Poi, di solito nel tardo pomeriggio, eravamo costretti tornare indietro a causa del coprifuoco, che comincia verso le 5:00 o quando fa buio. A quel punto trascrivevo le interviste raccolte durante la giornata e selezionavo le foto scattate nell’ambito dei nostri programmi e inviavo tutto ai colleghi a Gerusalemme, Ginevra e New York, che lavorano con i donatori».
In qualità di “specialista in comunicazione”, che differenza c’è tra il suo e il lavoro dei giornalisti sul campo a Gaza?
«Non c’è poi tanta differenza. Il mio lavoro consiste nel trasmettere informazioni al pubblico ed è importante perché purtroppo tanti giornalisti non hanno accesso a Gaza e quindi siete in parte dipendenti da quello che possiamo trasmettervi. Ma in realtà il mio incarico è anche molto politico».
Perché?
«Perché aiuto a preparare i comunicati dell’Unicef. Se, ad esempio, la nostra direttrice a New York vuole scrivere un editoriale sulla situazione a Gaza, noi le forniamo i dati e la aggiorniamo sugli ultimi sviluppi. In questo senso il nostro lavoro è molto politico ma è diverso da quello che facevamo a New York. Allora non immaginavo e mai avrei potuto immaginare che un giorno sarei finita a Gaza».
A proposito, cosa ne pensa dei tagli di Donald Trump ai fondi Usa per la cooperazione allo sviluppo?
«È un problema importante per l’Unicef, come per altre organizzazioni umanitarie, ma si tratta di una politica che a lungo termine sarà molto costosa.
Che intende?
«Ovunque nel mondo seguiamo programmi, ad esempio, per la vaccinazione o per l’istruzione. Si tratta di un investimento sui bambini di oggi per evitare problemi in futuro. In questo senso l’odierna politica di tagli è figlia di un modo di pensare miope. Sul lungo periodo infatti si rivelerà più costosa perché bisognerà fronteggiare nuovi problemi, che costeranno parecchio. Per fortuna noi di Unicef a Gaza siamo stati risparmiati da questi tagli. Ma è comunque una situazione molto triste. Ovunque nel mondo i bisogni crescono, non solo nella Striscia e quello che ci serve è maggiore solidarietà e più cooperazione».